Spy

Scemenze action

Babadook

Incubi e allegorie

Terminator Genisys

È tornato (purtroppo)

'71

Quando a Belfast si viveva tranquilli

Poltergeist

Potevamo tranquillamente farne a meno

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

31.8.07

Italia vs Grecia - 52 a 73

Cosa si può dire, dopo una partita del genere? Che considerazioni si possono trarre, da una simile serie di schiaffoni rifilati a un cadavere che di tanto in tanto s'imbizzarrisce per una semplice reazione nervosa? Che gli azzurri sono fatti così, si svegliano solo quando c'è qualcosa in palio (ma tipo l'onore non conta nulla?), magari, oppure che i veterani si stanno risparmiando per quando dovranno giocare tre partite in tre giorni in avvio di Eurobasket. Certo, si può dire. E si può dire anche che alcuni (Garri, Belinelli, Bargnani e probabilmente non solo loro) pagano un po' la preparazione frettolosa per tarda convocazione o a singhiozzo per acciacchi vari. Però, allora, che si fa, non si dice niente, su 'sto spettacolo indecoroso?

Non lo si dice, che in mezzo all'apatia generale, fra un Bargnani spaesato, un Belinelli che spara a caso sulla folla, un Bulleri alla ricerca di un cecchino che faccia smetterlo di soffrire e un Marconato ectoplasmatico si è visto anche qualcosina di buono? Perché se non si possono criticare i cattivi, allora, non è giusto nemmeno sottolineare la voglia, l'impegno e l'efficacia di Gigli, Mancinelli e Di Bella. E non bisognerebbe neppure dire che Basile (toh, un veterano) gioca la sua prima partita decente da un paio di settimane e, anzi, addirittura gioca proprio bene, mettendo ordine, difendendo, tirando con percentuali accettabili.

E che facciamo, non lo diciamo, che si deve davvero sperare che Recalcati voglia "nascondere" Crosariol per poi tirarlo fuori di potenza all'Europeo? Perché sennò non si spiega, davvero non si spiega, il modo in cui lo sta utilizzando. Caspita, questo entra con l'Italia che perde tantissimo a zero e comincia a tirare testate da tutte le parti. In una manciata di minuti conquista rimbalzi, si fa schiantare addosso qualsiasi tentativo avversario di attaccare il ferro, abbozza un minimo di gioco in post (l'unico dei nostri a farlo, ma non solo ieri, per tutto il mese) ruba palloni, serve assist, va a tirare (male, ok) un paio di liberi e segna oltretutto il primo canestro degli azzurri.

E Recalcati che fa? Lo toglie e non lo fa più entrare fino alla fine della partita. Continua a giocare con i lunghetti atipici che non prendono nemmeno un rimbalzo e stazionano dietro la linea da tre, rimette piuttosto dentro il fantasma morto di Marconato. A questo punto comincio a temere che abbia il coraggio di lasciarlo a casa. Beh, scusa Carlo, io di basket magari (ma anzi, sicuramente) non ne capisco quanto te, di certo non ho le tue conoscenze, la tua esperienza, la tua carriera alle spalle. Ma sottovalutare l'impatto che ha Crosariol quasi ogni volta che entra in campo, soprattutto contro squadre potenti sotto canestro come la Grecia, beh, mi sembra delirante.

Ma cazzo, ma sfruttalo, mica dico che debba toccare ogni pallone in attacco, ma con la presenza che ha in difesa, con quella la capacità di far valere il fisico, con l'opportunità che ti offre di variare l'attacco e aprire spazi per gli altri, ma come cazzo fai a lasciarlo ad ammuffire in panca per tenere dentro l'ammuffito (quello per davvero, parrebbe) Marconato o per far giocare Gigli in centro e Mancinelli in ala grande?

Io ti stimo e ti voglio pure un po' bene, perché hai vinto un bronzo europeo e un argento olimpico, e perché quando hai vinto quest'ultimo c'ero pure io, ad Atene. Però, porca puttana, se mi lasci a casa Crosariol io ti odio. Sì sì, non è che non sono d'accordo, mi stai sulle balle, o che. TI ODIO. Perché Crosariol, è ovvio, non è e non sarà mai il giocatore simbolo della nazionale, il più importante, il salvatore della patria. Ma è per molti versi il simbolo del modo in cui stai gestendo la situazione. E quindi voglio proprio vedere cosa ci combini. E, sappilo, ti odio pure se te lo porti per farlo giocare tre minuti a partita. Hai capito? Ecco. Oh, poi magari vinci l'Europeo mentre Crosariol se ne sta a casa a guardare le partite in TV. Ecco, a quel punto non ti odio più, al massimo mi stai un po' sulle palle.

Comunque, fra tre giorni si comincia, e io ti aspetto al varco.
Stai attento.

P.S.
Per favore, qualcuno dica a Lauro che il primo turno dei playoff raggiunto dai Raptors con Bargnani non è il miglior risultato della loro storia, e che nel 2001 sono andati a un tiro sbagliato sulla sirena dal vincere gara 7 del secondo turno contro i Sixers. Oppure fatelo direttamente stare zitto, via, che ci godiamo le partite senza la sua logorroica e insostenibile telecronaca.

30.8.07

La ragazza dello Sputnik

Supûtoniku no Koibito (Giappone, 1999)
di Haruki Murakami


Nella primavera del suo ventiduesimo anno, Sumire si innamorò per la prima volta nella vita. Fu un amore travolgente come un tornado che avanza inarrestabile su una grande pianura. Spazzò via ogni cosa, trascinando in un vortice, lacerando e facendo a pezzi tutto ciò che trovò sulla sua strada, e dietro non si lasciò nulla. Poi, senza aver perso nemmeno un grado della sua forza, attraverò il Pacifico, distrusse senza pietà Angkor Wat e incendiò una foresta indiana con le sue sfortunate tigri. In Persia si trasformò in una tempesta del deserto e seppellì sotto la sabbia un'esotica città-fortezza. Fu un amore straordinario.

In questo modo adorabilmente delirante si apre La ragazza dello Sputnik, secondo libro di Haruki Murakami su cui metto le mani e nuova piacevolissima, intensa e toccante lettura, fra l'altro anche un filo meno logorroica rispetto a Tokyo Blues - Norwegian Wood. Si parla di amori non corrisposti e dell'impossibilità di corrisponderne. Di persone radicalmente trasformate da eventi drammatici della loro vita e dell'inutile tentativo di "salvare" chi si ama.

Un libro malinconico e struggente, che rapisce per la capacità di creare un mondo surreale e sovrapposto a quello di tutti i giorni, per la semplicità verace con cui racconta di viaggi in giro per il mondo e per l'assurda peculiarità dei suoi protagonisti. Murakami oscilla fra la commedia romantica, l'intenso melodramma e addirittura la fantascienza, creando un efficacissimo mix, che fa probabilmente genere a sé.

E il risultato è un fantastico libretto, ricco di spunti interessanti, che racconta di passioni e misteri, di sogni infranti ed emozioni appassite. E in mezzo ci finisce pure un pizzico di thrilling, buttato lì, così, e destinato a sfumare nel nulla amaro e senza soluzione, se non quella fornita all'immaginazione del lettore da alcuni indizi abilmente e abbondantemente sparsi in giro. Ma è poi davvero importante, scoprire dove si nasconde la verità?

29.8.07

Doom

Doom (id Software, 1993/2006)
sviluppato da id Software - John Carmack, John Romero


Riprendere in mano Doom e rigiocarlo tutto, dall'inizio alla fine, in pieno 2007, è un'esperienza istruttiva e affascinante. Non è solo una questione di nostalgia per tempi andati e che non saranno più, non c'è solo la solita indulgenza nei confronti di un classico, in grado di influenzare fin nel DNA, nel bene e nel male, il mondo dei videogiochi venuti dopo di lui. Si tratta proprio del piacere di avere a che fare con una roba ancora oggi tremendamente divertente e appassionante. Un ammasso di pixel capaci per brevi tratti di creare atmosfera tanto quanto le odierne maree di poligoni. Ma soprattutto un drammatico specchio dei tempi, che ricorda, casomai ce ne fosse bisogno, quanto il genere degli sparatutto (o fps, o quel che vi pare) sia cambiato nel giro di un decennio.

Doom è videogioco nel senso più puro e pieno del termine. Non cerca di fare cinema, non si infogna nella narrazione, pensa solo a fornire materiale per giocare, in abbondanza, e a infarcirlo di un'atmosfera sordida, cupa, opprimente, malata e disgustosa, seppur filtrata da una certa dose d'ironia. E in questo, poco da dire, funziona bene ancora oggi, nonostante l'aspetto grafico smorzi inevitabilmente un po' del coinvolgimento. Epperò, pixelloni a parte, si resta comunque di fronte all'ennesimo esempio di quanto un misero bitmap senta sempre meno il peso degli anni rispetto a una figura poligonale.

Le bestiacce di Doom, soprattutto a un primo approccio, quasi non si possono guardare, per il modo impacciato, legnoso, piatto e monodimensionale con cui vanno in giro. Eppure, sarà per l'inconfondibile stile del design, sarà per la colonna sonora studiata ad arte, sarà quel che sarà, ma hanno ancora un carisma e un fascino a dir poco rari. E per di più popolano livelli fatti e pensati con l'unico e solo scopo di offrire una sfida, appassionante e stimolante.

Le mappe di Doom riducono le ambientazioni di qualsiasi fps moderno, anche il più apparentemente "libero", al rango di semplici corridoi, piatti e dritti, strade senza uscita verso una destinazione immutabile. Nel capolavoro (e diciamolo, su!) di id Software l'uscita da un livello bisogna invece sudarsela per davvero, riempiendo di piombo e plasma i nemici, certo, ma anche scrutando ogni metro quadro alla ricerca di bonus, munizioni e interruttori, esplorando gli anfratti per scovare quella maledetta ultima chiave. Ci si diverte a giocare, semplicemente, una cosa che oggi, quantomeno, si fa in maniera molto diversa. Non necessariamente migliore o peggiore, solo diversa.

E, impossibile negarlo, quel divertimento è rimasto immutato ancora oggi. Certo, bisogna trovarlo sepolto sotto una coltre di vecchiume grafico che probabilmente solo la nostalgia può spingere a superare. Sicuramente, si affronta la necessità di superare delle sfide reali, senza essere condotti per mano fra un filmato e l'altro. Ma ne vale la pena, per la piacevolezza dell'esperienza in sé e per l'importanza del "documento storico". Roba da nerd sfigati e vecchi dentro, insomma.

Ah, la versione Live Arcade è convertita molto bene, sebbene in deathmatch online si giochi un po' di merda. Ma d'altra parte, siamo seri, il punto è rigiocarselo da soli, o al massimo in cooperativa, vagando come disperati fra corridoi infestati di mostri e sobbalzando a ogni minimo rumore. Non negatevelo.

28.8.07

Tezuka secondo me

Boku no Tezuka Osamu (Giappone, 1994)
di Takao Yaguchi
Edito da Kodansha Ltd.
Edizione italiana a cura di Kappa Edizioni


Tezuka secondo me è un fantastico esempio di autobiografia "trasversale", che racconta la vita dell'autore Takao Yaguchi (noto in Italia fondamentalmente per aver creato il pescatore Sampei), la sua giovinezza nel Giappone rurale e il suo personale rapporto con l'opera di Osamu Tezuka. Scritta in reazione all'inattesa morte del "dio dei manga", la storia si apre proprio su quel nove febbraio 1989, per poi compiere un balzo indietro di quarant'anni e dare il via alla narrazione vera e propria.

E da qui partono quattrocento splendide, appassionanti e vibranti pagine, che raccontano la crescita e la formazione artistica dell'autore, la vita nel Giappone del dopoguerra, l'avvio della carriera di Osamu Tezuka seguito attraverso un'analisi delle pagine dei suoi fumetti e il devastante, incancellabile, totale impatto che la sua opera ebbe sull'intero mondo del fumetto dagli occhi a mandorla. E quindi, di riflesso, anche sul fumetto occidentale, quando negli anni Novanta esplose la nippomania e tutti, dai più famosi statunitensi all'ultimo dei bonelliani, cominciarono a infarcire di linee ipercinetiche e occhioni dolci i propri lavori.

Tezuka secondo me è un'opera importante e fondamentale, per i tanti livelli di lettura che offre, per l'approccio amichevole e appassionante con cui si racconta, per la quantità di dettagli e informazioni che riesce a proporre senza mai diventare pedante o noioso. Leggo che si tratta di un'edizione quasi unica al mondo, anche perché in patria è ormai fuori catalogo da anni. Beh, un plauso a Kappa Edizioni per lo sforzo compiuto: ne valeva davvero la pena.

26.8.07

La settimana a fumetti di giopep - 26/08/2007

Novità
Tezuka secondo me *****
Questo si merita un post a parte, in arrivo a breve.

Y: The Last Man #9: "Motherland" (L.O.) *****
Giunte ormai al nono volume, le vicende dell'ultimo (o quasi) uomo rimasto sulla Terra continuano a non mostrare evidenti segni di cedimento e rimangono anzi una fra le letture più piacevoli sulla piazza. Si respira forse solo quella tipica aria da "ci siamo quasi", ed è proprio evidente, se penso che quando ho letto il paperback ancora non sapevo di avere fra le mani il penultimo ciclo narrativo (o terzultimo, insomma, del resto mancan dodici numeri). Brian K. Vaughn getta sul tavolo le sue ultime carte e prepara le pedine per il ciclo finale, che si preannuncia esplosivo, vuoi per i tanti misteri da risolvere (ma avremo davvero tutte le risposte?), vuoi perché in ogni caso la curiosità di scoprire dove si voglia andare a parare è ormai quasi insopprimibile.


Antiquariato
Aquaman #13/14 (L.O.) ***
Due episodi di transizione, a fare da raccordo fra Rick Veitch e John Ostrander. Molto, davvero molto riuscito e ben scritto il primo, sulle vicende di una famiglia in pericolo di vita nel bel mezzo di una furiosa tempesta, decisamente meno gustoso il secondo, impacciato riassunto delle puntate precedenti.

Aquaman: American Tidal (L.O.) *****
Impressionante quanto una manciata di episodi scritti da Will Pfeifer riescano a cancellare per intensità, ritmo, potenza dei temi trattati l'intero ciclo di Rick Veitch. American Tidal è una gran bella storia, che inizia col botto e prosegue in un gran crescendo, senza aver bisogno di supercattivi da combattere o di colpi di scena stravolgenti. Racconta semplicemente di bei personaggi messi in una situazione di estrema crisi e di temi importanti trattati con gusto. E si concede anche il lusso di buttare lì un buon punto di partenza per sviluppi futuri. Complimenti a Pfeifer e complimenti a Patrick Gleason, che sembra un po' un clone di Doug Mahnke, ma funziona molto bene.

Aquaman #21/31 (L.O.) ****
Cambiano gli sceneggiatori (da Pfeifer a Ostrander e poi Arcudi), ma non l'eccellente modo in cui i semi gettati da Pfeifer in American Tidal vengono fatti germogliare. San Diego si è ritrovata improvvisamente sepolta sotto tonnellate d'acqua oceanica e gli abitanti stanno affrontando la loro nuova condizione di vita. Con fra le palle Aquaman, una lunga serie di loschi personaggi che vogliono inzupparcisi e l'ovvia degenerazione a cui la natura umana ci costringe sempre (o perlomeno questo sembrano pensare gli sceneggiatori del mondo intero: mai che vada tutto liscio, in un ambiente ristretto popolato da uomini!)

Steampunk #6/12 (L.O.) ***
Con questo secondo atto di una trilogia poi rimasta incompiuta, Steampunk continua a non convincermi fino in fondo. E francamente fatico a cogliere davvero il motivo: i disegni di Chris Bachalo sono come sempre splendidi, la narrazione non ingrana subito, ma quando parte ha un gran bel ritmo, il mondo fantastico c'è ed è ben caratterizzato e i misteri sono intriganti. Forse mancano un po' di carisma i personaggi, o forse non è proprio il mio genere di storia, effettivamente troppo contorta nello stile narrativo. Di certo, sono in buona compagnia.

The Flash: Rogue War (L.O.) ****
Geoff Johns e Howard Porter chiudono la loro gestione col botto, tirando le fila di tutti i discorsi lasciati in sospeso e regalando una storia avvincente, tiratissima, ricca di colpi di scena, affascinante nel modo in cui sviluppa la psiche dei vari personaggi e soprattutto strapiena di cattivissimi che si prendono a ceffoni e vogliono fare il culo a Flash. Spettacolare, tesa, ricca d'azione e divertente per gli sviluppi dei paradossi temporali. Promossa.

The Flash #226/230 (L.O.) **
Una chiusura indecente per una serie gloriosa. Meno male che poi han cambiato idea.

Wonder Woman: The Bronze Doors (L.O.) ***
Ultima saga "indipendente" di Rucka prima del definitivo tuffo nel turbine di crossover legati a Infinite Crisis, The Bronze Doors mi ha lasciato un po' addosso un'impressione di tirato via, di "chiudiamo tutto come si riesce che poi bisogna pensare ad altro". Ma del resto è un po' tutta la gestione Rucka che, pur valida, piacevolissima da leggere, con momenti davvero riusciti, mi sembra non riuscire mai a sbocciare davvero, a sfruttare fino in fondo il grosso potenziale che mostra.

25.8.07

Cominciano a venirmi le parole

Sempre da www.fip.it:

"Piove sul bagnato e non è una frase fatta. Sul salto a due di inizio gara, Angelo Gigli ricade malamente: distorsione alla caviglia sinistra. Partita finita."

Certo, "Due sorrisi a parziale compenso: l’Italia batte il Portogallo e Andrea Bargnani torna a giocare anche se per solo pochi minuti."

Però porca troia.

Senza parole

Estratti da www.fip.it:

"Danilo Gallinari non potrà partecipare al Campionato Europeo in Spagna.
La Tac a cui è stato sottoposto, questo pomeriggio all’ospedale di Bamberg (Germania) ha evidenziato una infrazione ossea alla testa del perone della gamba destra. Per recuperare occorrono venti giorni di stop. Decisamente troppi per partecipare all’Europeo che inizia il prossimo 3 settembre."

"Bamberg (Germania). Italia-Russia è un incubo che sembra non finire mai. Non solo perché l’Italia perde in malo modo con la Russia decisamente superiore tecnicamente e fisicamente, o perché va sotto fin dal primo quarto (6-23 al 10’), ma anche perché la gara è proprio funestata dalla notiziaccia che Danilo Gallinari non parteciperà al Campionato Europeo."

"Prima si è infortunato Mason Rocca, quindi l’energia che poteva essere di sostegno laddove il talento non arriva, poi Danilo e Andrea Bargnani. Domani spero che mi dicano che Andrea può riprendere (i tempi di recuperano parlavano di quattro giorni, ndr), perché comincia ad esserci disorientamento nel gruppo che non può vivere in continua attesa. In ogni caso è vero che i quintetti e gli equilibri vanno ricreati."

"piove sul bagnato: Galanda prende un colpo al mignolo della mano destra mentre Belinelli esce per una distorsione alla caviglia destra: entrambi sono da valutare."

23.8.07

Italia vs Lituania - 70 a 86

E alla fine sono arrivati anche i coppini di scherno, belli energici e convinti. Contro la Lituania gli azzurri hanno retto venti minuti perché Bulleri ci teneva a riscattare la prestazione oscena di ieri, ma nel terzo periodo non ci hanno davvero capito niente e al primo segnale di crollo, ancora una volta, si sono miseramente lasciati andare. E poco conta se poi, nell'ultima frazione di gioco, con gli avversari che si rilassavano e facevan giocare i bimbi, c'è stato l'ennesimo abbozzo di rimonta. Anche perché questa volta manco ci è stato concesso e siamo stati ricacciati indietro a calci in culo. Ma pure se fossimo arrivati a meno tre, davvero qualcuno avrebbe avuto il coraggio di celebrare il carattere di una squadra che per tre giorni di fila si fa prendere a ceffoni e rimonta quando gli altri si rilassano?

Direi di no. E direi anche che davvero c'è poco da salvare, sul fronte azzurro, in questo torneo dell'Acropoli. Fa piacere la conferma di Gigli che sta giocando con un'aggressività e una voglia che probabilmente non ha mai avuto in vita sua. Ed è bello vedere che Soragna sa ancora tirare le testate che ci servono. Buona prova anche di Hackett, ordinato e solido: continuo a preferirgli Di Bella, se non altro perché è il nostro unico piccolo in grado di saltare regolarmente l'uomo e attaccare il canestro, e me lo ricordo bene quanto Pozzecco servì ad Atene per questo motivo. Ma in ogni caso Hackett ottimo e positivo per il futuro e santo subito per la faccia di cazzo con cui ha tenuto testa alle provocazioni dei greci nella seconda partita (che io, di fronte a un Papadopoulos che si avvicina così, scapperei a gambe levate).

A proposito di tenere testa a Papadopoulos, qualcuno spieghi a Recalcati che Crosariol va confermato e va cavalcato un pochino di più. Non dico che debba diventare il perno dell'attacco, sarebbe assurdo con Belinelli, Bargnani e Gallinari (speriamo) sani, ma non capisco perché non provare a sfruttare un po' la sua potenza sotto canestro, che ci darebbe una dimensione diversa in attacco e libererebbe un po' di spazio per i tiratori. Non è Olajuwon, non è Shaq, ma lì sotto, quando gli han dato palla, ha tenuto botta contro i lunghi greci e lituani, trovando punti e falli subiti. Non abbiamo NESSUN altro che faccia questo, in quella marea di mezzaliforsecentri che tiran solo da fuori e se ricevono spalle a canestro oscillano fra la palla persa, il mattone sul ferro e lo scarico.

E in più è una presenza fisica difensiva devastante. Certo, commette errori di inesperienza, certo, tende a caricarsi di falli, ma porca puttana, chi altro abbiamo in grado di far rimbalzare Papadopoulos contro un MURO DI CEMENTO in quel modo? Nessuno. E invece ci dobbiamo tenere Galanda, con le sue sparacchiate da tre, i suoi continui falli in difesa, la sua monodimensionalità, e Marconato che sembrava vivo contro le squadrette, ma in Grecia si è fatto stoppare dai piccoli e non ha preso un rimbalzo neanche quando gli cascava la palla in mano. E per non rinunciare a tutti i veterani bisogna segarne due fra Crosariol, Mancinelli, Di Bella e Hackett. Bah!

Comunque, queste tre partite han ribadito, casomai ce ne fosse bisogno, che i veterani tanto belli e tanto bravi non stanno in piedi, se li costringi a un minutaggio pesante e a tirare la carretta. Il Basile che entra pochi minuti e porta ordine, esperienza e qualche tiro piazzato va benissimo. Quello che gioca troppo e passa il tempo buttando per aria qualsiasi cosa gli passi fra le mani non serve a un cazzo, perché semplicemente non ce la fa più, come non ce la faceva un anno fa in Giappone.

Ma in ogni caso, in generale, è l'atteggiamento che non va bene. Manca la coesione, manca il gruppo, manca la difesa, e non ce ne facciamo niente di Bulleri che gioca quindici minuti di fuoco perché vuole far vedere che non è bollito come sembrava contro la Grecia. Io spero davvero, a questo punto, che i vecchietti si stiano risparmiando per quando le cose diventeranno serie, ma così, a naso, ho davvero l'impressione che la tanto sperata fusione fra veterani e ragazzini stia faticando a cementarsi. E sarebbe un bel problema.

Comunque, è chiaro che senza Gallinari e Bargnani non si poteva sperare di battere le corazzate. Fa male vedere quell'atteggiamento e non mi convincono certe scelte di Recalcati (ma chi sono io per giudicarle?), però non è ancora troppo il caso di fasciarsi la testa. In Germania dovrebbero tornare gli assenti, speriamo in buone condizioni e speriamo in grado di integrarsi a dovere nel poco tempo rimasto. Oltretutto le palle è importante che vengano tirate fuori a settembre, non adesso. E poi vediamo che decide Recalcati: comunque vada, secondo me ci smeniamo. Che il taglio sia Mancinelli, Crosariol o il play di riserva. O che non sia tagliato nessuno dei tre perché Bargnani è inutilizzabile e si libera un posto. Ma chi sono io per giudicare?

22.8.07

Tristezza infinita

Italia vs Grecia - 62 a 72

Seconda giornata di torneo dell'Acropoli, secondo schiaffone, prevedibile e bello corposo, con la mano aperta e il segno delle cinque dita ben stampato in faccia. La Grecia è impressionantemente forte, per il talento e la fisicità dei singoli, ma ancor di più per la sua essenza di squadra. Sono uniti e compatti, abituati a giocare assieme, funzionano come meglio è difficile fare e sono obiettivamente fuori portata per l'Italia attuale, ben lungi dall'essere amalgamata a dovere e difficilmente in grado di diventarlo fino a che non saranno risolti i problemi fisici delle due stelline Bargnani e Gallinari. Fa comunque piacere vedere che ci si sia limitati allo schiaffone e non si sia arrivati ai coppini di scherno.

Non che i simpaticoni non ci abbiano provato, a far cinema coi numeri d'avanspettacolo, ma gli è stato fatto capire in fretta che non era il caso e, anzi, gli azzurri ci hanno provato fino in fondo, giocando un'onesta partita e limitando il passivo in maniera decorosa. Dopo lo squallore visto contro la Slovenia, la reazione di carattere era prevedibile, dovuta, e non va quindi sopravvalutata. Fa piacere che ci sia stata ma, insomma, ci mancherebbe altro. Più interessante invece valutare la buona prova di Hackett, cui Recalcati ha regalato alto minutaggio, perché sa che non potrà averlo a disposizione nel prossimo torneino in Germania. Il ragazzetto mette in campo ordine, palle e solidità mentale, assieme a tutti i limiti di un talento non proprio strabordante e dell'evidente inesperienza a questi livelli.

Buono anche Crosariol, che pure lui paga con troppi falli ingenui l'inesperienza, ma butta sul piatto un paio di gran bei canestri in rovesciata e soprattutto ci regala un minimo di gioco in post e una presenza fisica in difesa che nessun altro azzurro può vantare. Io resto dell'idea che sia un delitto rinunciare al suo corpaccione là sotto, fermo restando che vorrei anche vederlo un po' più attivo a rimbalzo. Ma d'altra parte i rimbalzi sembrano essere completamente assenti nel nostro DNA, se è vero che quel mollaccione di Gigli è l'unico che ne piglia e soprattutto è l'unico che sembra davvero essere interessato a farlo. Così però non funziona e non si va lontano, specie nelle serate in cui non entra il bombardamento da tre.

Pessimo Belinelli, che a quanto pare senza Gallinari e Bargnani in campo si convince di dover fare tutto da solo e sparacchia a caso da qualsiasi posizione, in maniera totalmente inutile e dannosa. Certo, capita la sera in cui quei tiri gli entrano e mette 30 punti. Ma ne capita una su quante? Il recupero degli altri due, probabilmente, farebbe molto bene anche a lui. Ottimo, invece, Soragna, che per la seconda partita consecutiva mostra la carica, la solidità mentale e l'efficacia dei bei tempi. Alla fine ha probabilmente ragione Recalcati a fare tanto affidamento su di lui, vista anche l'estrema versatilità.

Il problema, però, è che tolto lui e tolto un discreto Galanda, ieri sera i veterani hanno fatto un po' tutti ridere. Evanescenti Basile e Marconato, addirittura fastidiosi Bulleri e Mordente. L'impressione mia è che siano sempre meno in grado di portarsi la squadra sulle spalle e che non possano andare molto oltre l'ovvio ruolo di chiocce per i ragazzini. Che nella serata giusta Basile sia in grado di buttare dentro quindici pesantissimi punti non lo metto in dubbio, ma non può essere l'ancora di salvezza per un intero torneo e certo non mi aspetto più da lui partite come quelle del 2004 contro USA e Lituania.

Ma del resto va bene così, questa è una nazionale giustamente costruita attorno a Gallinari, Belinelli e Bargnani, che non può fare ovviamente a meno dei veterani, ma che deve puntare sul talento di questi tre giovani e avere come obiettivo l'inserimento degli altri (non solo Hackett e Crosariol, ma anche i "futuri" come Datome). Ovvio che senza due del trio si faccia fatica e non si possa pensare di giocarsela ad armi pari con una superpotenza come la Grecia. Specie perché, come si diceva, la squadra sembra far fatica a trovare la giusta "chimica". Manca di compatezza, non lavora assieme come si deve, non riesce a difendere se non sulla base di guizzi momentanei del singolo. E certo non sarà facile trovare l'intesa giusta, con tutti i problemi e le assenze forzate che stanno capitando.

Stasera, dopo i due salutari e sonori schiaffoni, servirebbe magari una vittoria, contro la Lituania che un anno fa ci aveva buttati fuori dai Mondiali. Non sarà facile, anche perché gli assenti non smetteranno di essere tali, ma darebbe una bella iniezione di fiducia e aiuterebbe a cementare la solidità di gruppo che è stata alla base dei successi ottenuti dalla nazionale in questo decennio. Poi vediamo cosa succede in Germania, dove dovrebbero tornare Gallinari e Bargnani e dove Recalcati suppongo prenderà le sue decisioni finali sulla rosa.

21.8.07

Italia vs Slovenia - 81 a 84

Dopo otto vittorie consecutive, arriva finalmente la prima sconfitta. Sconfitta vera, nonostante l'assenza di Gallinari e i problemi fisici di Bargnani, un po' perché pure la Slovenia non era a pieni ranghi, un po' perché non è che si debbano per forza cercare scuse. Ma soprattutto perché si tratta di una sconfitta figlia non di una netta inferiorità tecnica, ma di un atteggiamento insopportabile, da italietta vintage, tenuto per quasi tutto il match. Detto questo, che dopo essere stati sotto di 19 e aver iniziato l'ultimo quarto a meno 15 si sia arrivati al tiro del pareggio sulla sirena fa paura, così come avrebbe fatto paura una nazionale in grado di vincere una partita giocata tanto di merda. Ma forse è più importante essersi beccati la sconfitta, lo schiaffone, a maggior ragione perché subito da parte di una squadra che femmina lo è stata per anni e finalmente pare aver trovato l'identità operaia che gli azzurri sembrano stare perdendo per strada.

E allora ben venga Soragna, che non avrà la freschezza e la continuità di Atene, ma ieri sera ha guidato la rimonta e ha spiegato a tutti quanti il motivo per cui questa squadra non può fare a meno di lui. Per il resto, c'è davvero poco da salvare: Bargnani si carica subito di falli e praticamente non si vede, Basile sembra improvvisamente tornato quello inesistente dell'anno scorso, Bulleri è in una delle sue insostenibili giornate no, Hackett mi fa davvero pensare che sia troppo presto e che le penetrazioni di Di Bella ci servano tantissimo e i lunghi si fanno tutti mangiare in testa a rimbalzo, a parte Gigli che - chi l'avrebbe detto - conferma anche in un match difficile quanto di buono fatto vedere nelle ultime partite e mostra carica, aggressività e voglia di fare anche il lavoro sporco. Per il resto, solita buona prova di Belinelli e bella partita di Galanda, che si è fatto sentire più con la sostanza che nelle cifre.

Comunque, meglio perderci adesso che il 3 settembre, con la Slovenia, ma ancor più importante è che lo schiaffone non si trasformi, stasera, in una sventola di coppini. Perdere anche con la Grecia ci potrebbe tranquillamente stare, stiamo comunque parlando di una delle due principali favorite per gli Europei, ma il punto è che ci vuole una reazione. Io non voglio vedere questa banda di fighe che passeggiano per il campo e si svegliano gli ultimi cinque minuti perché tanto si rimonta a colpi di anticipi difensivi e triple in contropiede. Io voglio gli assatanati che quattro anni fa hanno conquistato il podio europeo a testate sulla fronte, sputando sangue, combattendo nel fango e calpestando i cadaveri dei nemici. Poi ben vengano i tanti punti nelle mani del trio delle meraviglie (sperando che ora di settembre Bargnani e Gallinari stiano bene), ma la base devono essere le testate.

A margine, non invidio Recalcati, perché davvero non saprei come scegliere i due che ancora deve lasciare a casa. Oddio, fra Di Bella e Hackett, tutto sommato, penso che si possa segare tranquillamente il secondo, forse non ancora pronto e soprattutto non in grado di dare quello che il primo fornisce in abbondanza e che francamente penso serva, per cambiare ritmo alle partite, per avere un attacco diverso e più grintoso. Ma per l'altro taglio... Gigli, in questo momento, sta giocando benissimo e lasciarlo a casa sarebbe un delitto. Ma d'altra parte, un centro puro come Crosariol, per quanto anche lui non sembri forse ancora prontissimo, potrebbe servire davvero tanto a una nazionale che va troppo sotto a rimbalzo e che tolto Marconato ha solo una serie di lunghi a metà fra un ruolo e l'altro. E allora che fai, li tieni entrambi e rinunci al playmaker supplementare? Ci può stare, perché di gente che sappia portar palla per qualche minuto ne abbiamo tanta, ma poi, quando capita l'inevitabile giornata storta di Bulleri, il rimpianto per un Di Bella lasciato a casa potrebbe essere fortissimo. Insomma, scelta durissima.

20.8.07

Ristar

Ristar the Shooting Star (Sega, 1995/2006)
sviluppato da Sega - Yuji Uekawa


Nato da una costola abortita di Sonic the Hedgehog, Ristar ha visto la luce solo tre anni dopo il suo originale concepimento, quando ormai il Megadrive si avviava verso il tramonto e si preparava a lasciare spazio al Saturn (non che il Saturn ne abbia poi occupato molto, di spazio). Ed è probabilmente questo il motivo per cui non ha goduto di tutto il seguito e il successo che meritava e che merita tuttora nella sua postuma reincarnazione su Virtual Console.

Ristar è infatti un vero gioiello, sotto qualsiasi punto di vista, evidente summa dell'esperienza accumulata da Sega nei tanti anni di platform sviluppati per Megadrive. Basta uno sguardo per essere rapiti dal delizioso stile grafico, colorato e ispiratissimo nel design e nella realizzazione. Spettacolare per l'epoca e per le capacità della macchina, ma tutto sommato ben in grado di tenere botta ancora oggi, per la magia che traspira da ogni singola animazione, da ogni piccolo dettaglio nascosto, in grado di far passare in secondo piano i limiti grafici dell'hardware. Altrettanto vale per la colonna sonora, che mette tenerezza per la sua semplicità ma stupisce per il gusto e l'efficacia dei motivetti.

E tutto questo fa da corollario a una meccanica di gioco e a un design dei livelli ricchi di idee, pieni di sorprese, efficaci e divertentissimi. Dietro ogni angolo c'è una sorpresa e una trovata geniale, un nemico o un ostacolo da affrontare sfruttando in una nuova maniera le manine ultraprensili del protagonista. A margine, una difficoltà crescente e graduale, calibrata alla perfezione, che s'impenna su alcuni boss e nelle fasi finali, ma non diventa mai frustrante e anzi offre uno sfizioso e impegnativo tasso di sfida a chiunque voglia scovare tutti i segreti nascosti.

A conti fatti - tolta la sua presenza in varie raccolte Sega uscite nel corso degli ultimi anni - fatico davvero a trovare un motivo per cui Ristar non possa meritarsi gli 800 punti che costa. L'emulazione su Virtual Console è perfetta e il gioco, complice il fatto che utilizza solo due tasti, si controlla una meraviglia sul telecomando tanto quanto sul Classic Controller. Meglio di così è difficile chiedere. Al massimo si può sperare che Sega lo lasci in pace e non venga in mente a nessuno di riservare a questa povera stellina l'osceno destino affrontato da Sonic e, temo, Nights.

18.8.07

La settimana a fumetti di giopep - 18/08/2007

Novità
Invincible: My Favorite Martian (L.O.) *****
Da poco meno di quattro anni il miglior fumetto di supereroi sulla piazza (e, incidentalmente, uno dei migliori fumetti seriali punto e basta) non è Marvel e non è DC. Fresco, divertente, appassionante sulla singola storia e nell'intreccio a lungo respiro, Invincible è un vero gioiello. Robert Kirkman, a parer mio, continua a dare il meglio sulle sue creazioni e la coppia Invincible/The Walking Dead è davvero qualcosa che tutti dovrebbero leggere.

Sakura Wars #1/3 ***
Questa roba non fa più per me.


Antiquariato
Aquaman: The Waterbearer (L.O.) ***
Aquaman #6/12 (L.O.) ***
L'anno di Rick Veitch su Aquaman, pur basato su un paio di idee interessanti e su un immaginario fantastico affascinante, mi è parso un po' poco incisivo. Il ritmo è altalenante, il cattivo non è male, ma è decisamente sottosfruttato e i colpi di scena sono abbastanza telefonati, per quanto ben raccontati. Insomma, un prodotto decoroso, ma tutt'altro che entusiasmante.

The Flash: Ignition (L.O.) ****
The Flash: The Secret of Barry Allen (L.O.) ****
Continua alla grande il notevole ciclo di Geoff Johns su Flash. Lunghe trame ad ampio respiro, intense e drammatiche, raccontate con gusto, passione e un senso del ritmo strepitoso. E The Secret of Barry Allen è forse una delle poche cose davvero buone generate da Identity Crisis.

X-Men - Gli anni d'oro #10/13 ***
Mettendo a posto nel caos mi son ritrovato fra le mani gli ultimi quattro volumi delle ristampe pre seconda genesi, ancora intonsi dai tempi dell'acquisto. Li ho letti e mi sono gustato una serie di storie arcaice e incartapecorite, fascinose nella loro ingenua lentezza, ancora capaci di stupire con quei toni assurdamente esasperati e quei disegni evocativi. E in più c'è un giovanissimo Barry Windsor-Smith che fa spudoratamente il verso a Jack Kirby!

16.8.07

Ferragosto a Silent Hill

Ho passato due giornate con la Rumi vagando nell'Alta Savoia, fra Sallanches e Chamonix Mont Blanc, con un giorno di sole e un giorno di bruttura, in posti strabordanti di turisti (metà dei quali giapponesi) ma davvero belli. E in ogni caso relax, quieto vivere, riposo e cazzeggio, che è poi è quel che si cercava. Le foto son tutte del secondo giorno, quello brutto, e quasi tutte sovra o sotto esposte. Quelle poche non dico belle, ma perlomeno passabili, le metto dietro il "Leggi tutto l'articolo".









15.8.07

The Descent

The Descent (UK, 2005)
di Neil Marshall
con Shauna MacDonald, Natalie Mendoza, Alex Reid, Saskia Mulder, MyAnna Buring, Nora-Jane Noone


Sei donne appassionate di sport estremi e legate da profonda amicizia si riuniscono per la prima volta da parecchio tempo per provare ad esorcizzare il ricordo di un tragico evento condiviso nel loro passato e che le aveva in qualche modo allontanate. Per farlo, decidono di dedicarsi all'esplorazione di un sistema di grotte e gallerie sotterranee sui monti Appalachi. Ci sarà qualche imprevisto.

Rivedendolo quasi un anno dopo, senza addosso la stanchezza mentale da sei giorni di rassegna veneziana e la propensione ad osannare qualsiasi cosa parli un linguaggio anche solo vagamente mainstream, fa piacere constatare come i pregi di The Descent rimangano sostanzialmente immutati. Su tutto svetta il ritmo travolgente, che cresce fin da subito e avvolge in atmosfere di fortissima claustrofobia prima, di furioso panico poi. The Descent non lascia un attimo di respiro e coinvolge tremendamente lo spettatore dall'inizio alla fine, senza tregua.

Neil Marshall prosegue sulla linea del precedente Dog Soldiers, del quale questo sembra quasi un remake al femminile. Forse anche grazie a un budget più corposo, però, il suo secondo film finisce per essere decisamente più riuscito, se non altro perché non scade mai nel ridicolo e anzi riesce tutto sommato a legittimare il seriosissimo melodramma esasperato che racconta. Tutto questo viene insaporito da un gustoso - ma mai gratuito - piacere per il sangue e la violenza, e da una voglia di stupire con qualche trovata intelligente e riuscita (per esempio le prime due, diversissime ed entrambe splendide, apparizioni degli "amichetti").

Certo, nel rivederlo non svaniscono neanche i difetti, anzi, questi diventano forse anche più fastidiosi. Per esempio l'utilizzo didascalico, insistente, invadente delle musiche, o i soliti momenti "buh" senza senso messi lì solo per rompere le palle. Ma nel complesso The Descent è un gran bel film horror, le cui due facce funzionano entrambe molto bene e che ha forse il solo (presunto) limite di prendersi decisamente sul serio. Per alcuni, visto ciò che viene raccontato, potrebbe essere un difetto.

14.8.07

Ansia

13.8.07

Stay - Nel labirinto della mente


Stay (USA, 2005)
di Marc Forster
con Ewan McGregor, Ryan Gosling, Naomi Watts


Sam Foster è uno psichiatra che "eredita" da una sua collega in malattia il caso di Henry Letham, ragazzo a dir poco pieno di problemi, abituato a conversare con voci che arrivano da chissà dove e in grado, pare, di prevedere il futuro. Nel tentativo di aiutarlo e di dissuaderlo dai suoi propositi autodistruttivi, Sam finisce per farsi trascinare nel delirante vortice di follia che vaga per la testa di Henry e comincia egli stesso a perdere il contatto con la realtà.

Maliziosamente pubblicizzato come thrillerone soprannaturale, Stay è invece un film dai toni cupi, lenti e riflessivi, che punta tutto su un crescente senso di oppressione, spaesamento, paranoia. Marc Forster, uno fra i registi più versatili e interessanti dell'Hollywood attuale, mette assieme immagini molto suggestive, senza lasciarsi però andare troppo sulle ali della visionarietà forzata. E soprattutto imbastisce incredibilmente bene più livelli di lettura, infarcendo ogni inquadratura di dettagli, indizi e piccoli tasselli di un mosaico che nasconde il mistero nella testa di Henry Letham.

Si parla spesso di film dal finale a sorpresa, che a una seconda visione perdono tutto il loro fascino. Stay, probabilmente, rappresenta il caso opposto, e offre due racconti: il dramma di Sam Foster, che si offre alla prima visione, e quello di Henry Letham, da gustarsi col senno di poi in un secondo approccio più consapevole, in grado di far notare la minuziosa e maniacale cura nella messa in scena e di dare un senso al mostruoso carico di simbologie e doppi significati nascosti in ogni inquadratura.

Un approccio supplementare, va detto, magari sconsigliato da una certa pesantezza narrativa, ma che sicuramente offre notevoli spunti d'interesse e permette di godere una seconda volta delle doti di "concreto visionario" che Forster mette in mostra. E non è poco, viste anche le premesse da ennesimo thrilleraccio sovrannaturale in stile nippo.

12.8.07

Xbox Live Arcade - Un dramma risolto

Quando si compra un gioco Xbox Live Arcade, l'acquisto si lega a doppio filo alla console e all'account Xbox Live utilizzati per eseguirlo. Questo significa da una parte che chiunque utilizzi quella console, con qualunque account, potrà giocarci, e dall'altra che sarà possibile farlo anche su qualsiasi altra console, a patto di usare l'account utilizzato per l'acquisto e di essere connessi a Xbox Live. Tutto questo permette alla Rumi (e teoricamente a chiunque altro passi da casa mia) di avere sulla mia Xbox 360 il proprio account, con cui giocare ai vari titoli Live Arcade da me acquistati senza doverli comprare a sua volta.

Cosa succede se acquisto un nuovo 360, o se mando la console in assistenza per vedermene recapitare a casa una diversa in sostituzione? Succede che i giochi Live Arcade da me precedentemente acquistati rimangono legati al mio account, con cui posso continuare a giocarci, ma non sono ovviamente legati alla nuova console. E quindi? E quindi devo per forza giocarci online (perché così l'acquisto viene, diciamo, "certificato") e, soprattutto, la Rumi non ci può più giocare col suo account. Ora, per tutto questo c'è una soluzione, magari anche banale e risaputa, ma tutt'altro che immediata e certo non palesemente sotto gli occhi dell'utente, tant'è che non ne eravamo a conoscenza né io, né i miei vari conoscenti, né il servizio di assistenza telefonica Microsoft (ma vabbé, forse quest'ultimo non fa troppo testo).

Si fa così (scusate se utilizzo i termini in inglese, ma non uso la dashboard in italiano):
- andate nell'area Marketplace della Dashboard;
- selezionate Account Management;
- selezionate Download History;
- cercate qualsiasi roba abbiate comprato (quindi anche eventuali upgrade per giochi), la selezionate e poi via di "Download again".

E così, come per magia, tutto tornerà a posto e potrà essere utilizzato anche offline e anche attraverso ogni singolo account della console. Il procedimento è un po' macchinoso, ma funziona. Come ho scoperto tutto questo? Facendo un giro sul forum americano di xbox.com. Pirla io a non pensarci prima.

11.8.07

La settimana a fumetti di giopep - 11/08/2007

Novità
Bestia #3/4 **
Non ho più l'età per le tette al vento di Ikegami.

Buffy The Vampire Slayer Season 8 #1/4 - "The Long Way Home" (L.O.) ***
Perché i fumetti basati su film o telefilm devono essere, nella maggior parte dei casi, disegnati di merda? Perché, anche quando non sono disegnati completamente di merda, le facce dei personaggi "ricalcate" su quelle degli attori riescono ad essere comunque inguardabili? La risposta non la so, ma questa ottava stagione di Buffy fatica a uscire dallo stereotipo: George Jeantys fa un lavoro complessivamente decoroso, ma mostra evidente imbarazzo nel tratteggiare i volti dei personaggi "noti". Per fortuna la storia si lascia leggere e fa il suo dovere nel gettare carne sul fuoco per avviare l'intreccio, anche se in tutta franchezza non mi ha entusiasmato. Vedremo come si evolveranno le cose.

Buffy The Vampire Slayer Season 8 #5 - "The Chain" (L.O.) **
Maldestro tentativo di realizzare un intenso episodio autoconclusivo, fallito probabilmente per i limiti imposti delle ventidue pagine. Bah, dal prossimo numero arriva l'ottimo Brian K.Vaughan, speriamo che la serie ingrani per davvero.

Getter Saga #8 ***
Mazzate, robottoni, mostri giganti, melodramma spinto e azione a getto continuo. La solita lettura prevedibilmente appassionante.

Ghost Rider: Circolo vizioso **
Daniel Way eredita il nuovo Ghost Rider da Garth Ennis e prova a portarlo avanti sugli stessi binari di sarcastico e autoironico melodrammone demoniaco. La mia impressione è che funzioni poco e il rimpianto per il caro vecchio Danny Ketch degli anni Novanta è ulteriormente acuito dalle matite di Mark Texeira.

Nuove storie della vecchia Palomar #1 ***
Torna la cara vecchia Palomar e tornano le sue malinconiche, divertenti, appassionanti e commoventi storie di vita vissuta. Gustandomi questa come al solito gradevolissima manciata di pagine, mi è un po' mancata quella bella sensazione di ampio respiro dei migliori volumi di Love & Rockets, ma l'atmosfera rimane quella dei bei tempi. Ne voglio ancora.

Punisher/Bullseye: Tiro al bersaglio ***
A quanto pare Daniel Way è diventato il supplente ufficiale di Garth Ennis. Beh, sul Punitore - magari anche per i soliti deliziosi disegni di Steve Dillon - funziona decisamente meglio. Entrambe le storie (nella seconda delle quali, comunque, il Punitore fa giusto un'apparizione) sono divertenti e riuscite. Forse un po' troppo cazzara la prima, davvero gustosa e appassionante la seconda. Nel complesso un volume decisamente piacevole.


Antiquariato
Cable & Deadpool #1/34 (L.O.) ***/****
Non siamo, lo ribadisco, ai livelli del delirante serial anni Novanta di Joe Kelly e Ed McGuinnes, ma questo Cable & Deadpool a tratti riesce davvero a tirare fuori l'esilarante spirito iconoclasta e dissacrante dei bei tempi. Il mix fra i due personaggi funziona abbastanza, ma il serial regala i suoi momenti migliori quando tralascia l'improbabile crociata di Cable e si concentra sulle cazzate sparate a raffica da Deadpool. Peccato per la mancanza di un disegnatore fisso, e per una qualità generale molto altalenante, ma gli archi narrativi più riusciti (per esempio "A Murder in Paradise") sono davvero un piacere da leggere.

The Flash: Blitz (L.O.) ****
Splendida saga dedicata alla rinascita del nemico per eccellenza di Flash. Appassionante, drammatica, ricca di azione e colpi di scena. Geoff Johns al suo meglio.

10.8.07

Lost - Stagione 2

Lost - Season 2 (USA, 2005/2006)
creato da David Lindelof e J.J. Abrams
con Matthew Fox, Evangeline Lilly, Josh Holloway, Terry O'Quinn, Naveen Andrews, Michelle Rodriguez, Adewale Akinnuoye-Agbaje, Jorge Garcia, Dominic Monaghan, Emilie de Ravin, Harold Perrineau, Daniel Dae Kim, Yunjin Kim, Maggie Grace, Cynthia Watros


Forse perché si erano rese conto di aver creato un cast di personaggi che mi sarebbero stati tutti, dal primo all'ultimo, tremendamente sul cazzo, le menti pensanti dietro a Lost han saggiamente deciso di introdurne uno interpretato da Michelle Rodriguez. E subito mi son ritrovato a rivalutare tutti gli altri in prospettiva, anche se, francamente, il nano tossicodipendente e la strafiga che fa sempre la peggiore scelta possibile fanno davvero di tutto per farsi odiare altrettanto.

Ma forse è proprio questo uno dei punti forti di un serial che riesce a farti appassionare al destino di personaggi che vorresti disperatamente prendere a schiaffi (anche se in effetti del destino del nano non me ne frega davvero nulla, spero anzi che esploda improvvisamente, senza motivo, per un buco di sceneggiatura, e si dimentichino tutti della sua esistenza). La seconda stagione di Lost, comunque, prosegue serenamente sul solco della prima, portando avanti il racconto sui paralleli binari del presente e del passato, riarrangiando e rimescolando di continuo le carte, le certezze e le convinzioni dello spettatore, dilatando mostruosamente i tempi del racconto.

Si svolge tutto nell'arco di qualche settimana, ma che impiega mesi a trascorrere. E, come nella prima annata, succede molto di più nei flashback che nel presente, spesso messo da parte e "ritardato" per far spazio. Ed esattamente come accadeva nella prima stagione, nei momenti più concitati del racconto "presente" il flashback del caso tende a spezzare un po' troppo il ritmo e a favorire l'orchite. Tanto più che non sempre questi ricordi di tempi che furono aggiungono davvero elementi importanti al racconto e talvolta finiscono per lasciare una certa sensazione di superfluo, di facile pretesto per allungare il brodo.

Ma proprio perché talvolta la brodaglia tende a sembrare davvero un po' troppo annacquata, spiccano ancora di più certi difetti strutturali, fatti di un modello ripetuto all'infinito e che finisce per rendere davvero un po' troppo prevedibili gli sviluppi del singolo episodio. Non solo per la caratterizzazione monocorde di certi personaggi, dei loro atteggiamenti, delle loro reazioni a ciò che accade, ma anche per la ripetitiva struttura di tutti gli episodi, che proseguono imperterriti nel riproporre simbolici, affascinanti e prevedibili paralleli, corsi e ricorsi nella vita dei personaggi.

Agli autori di Lost piace parlare di destino, di coincidenze che forse tali non sono, e dei gradi di separazione modello Kevin Bacon. Del fatto che tutti, ma proprio tutti, prima o poi hanno avuto a che fare l'uno con l'altro, della sensazione che nulla accada per caso, che ci sia un disegno più grande o che, se non c'è, il mondo sia davvero tremendamente, mostruosamente, deliziosamente piccolo. E nel raccontare di tutte queste scemenze facendole sembrare come le cose più naturali, interessanti e intelligenti del mondo, Lost si concede anche di mettere in piedi un universo narrativo affascinante, ricco di misteri e che, pur con qualche timida forzatura, continua a sembrare riuscito e coerente.

Ma il motore degli eventi, fra un mistero, una sorpresa, un colpo di scena e una rivelazione, rimane sempre la ragnatela di relazioni fra i personaggi. Il modo in cui interagiscono fra di loro, l'evoluzione delle loro personalità e la loro crescita come gruppo. Ed è forse in questo che, francamente, la seconda stagione mostra un po' la corda. Nell'incapacità di stare dietro come si deve a tutti quanti, dovuta forse al cast sempre più numeroso e alla necessità di dare maggiore spazio ai misteri dell'isola. Nell'impressione che sia un po' troppo facile giustificare con lo stress, il panico, la sfiducia, certi atteggiamenti estremi, assurdi, ma soprattutto talvolta un po' "fuori dal personaggio".

Eppure, nonostante i difetti, nonostante i passi falsi, il giocattolo funziona ancora a meraviglia, forse proprio perché talmente saturo di elementi interessanti da potersi permettere di trascurare a tratti qualche ingrediente per favorirne altri, mentre si aggiunge condimento e si procede imperterriti nella cottura. Lo zuppone che ne viene fuori, nel suo complesso, ha un sapore entusiasmante. La somma delle parti, ancora una volta, è superiore al singolo valore delle stesse.

8.8.07

Hotel Dusk: Room 215

Wish Room Tenshi no Kioku (Nintendo, 2007)
sviluppato da Cing


Sorta di via di mezzo fra l'avventura grafica punta e clicca e il romanzo (poco) interattivo, Hotel Dusk mira alto e prova a raccontare una storia adulta e matura, con un'atmosfera da Hollywood dei bei tempi e una sceneggiatura di livello. Splendidamente curato sul piano estetico, con uno stile grafico che ricorda i fumetti di Naoki Urasawa e un interessante utilizzo "registico" del doppio schermo nelle fasi narrative, la seconda uscita di Cing su Nintendo DS non riesce però a convincere fino in fondo sotto praticamente qualsiasi altro punto di vista.

A funzionare solo in parte è innanzitutto la pura e semplice componente narrativa, che da un lato ha la rara - perlomeno nel mondo dei videogiochi - dote di sapersi raccontare con personaggi molto ben caratterizzati e dialoghi davvero vari, credibili e ben scritti, ma dall'altro si perde in una ripetitiva e spesso superflua logorrea, affoga lo "spettatore" nei suoi tanti tempi morti e gli chiede di sorvolare su un po' troppe incertezze del plot (e, mi dicono, nella versione italiana è scritto di merda). Non aiuta una colonna sonora a dir poco altalenante e davvero troppo ripetitiva, soprattutto nella sua insistenza a riavviare le varie tracce musicali dopo praticamente qualsiasi azione compiuta.

Ma il vero problema di Hotel Dusk sta nelle meccaniche di gioco, che riescono fastidiosamente ad essere nello stesso tempo semplici, dirette, efficaci e ricche d'inventiva nell'utilizzo del touch screen, ma anche ripetitive, farraginose, superflue e macchinose. C'era davvero bisogno, per esempio, di rendere così estenuante la comunicazione con la ragazza muta? Di chiedere al giocatore di stare ogni volta a ripetere tutte quelle lunghe e pallose azioni per poter leggere una risposta da due parole?

Per non parlare, poi, dei più fastidiosi fra i classici difetti da avventura grafica moderna. Perché certi oggetti non possono essere raccolti fino a che non si "sblocca" l'enigma che li richiede? Non pretendo che il povero Kyle Hyde accetti di infilarsi in tasca una bottiglia di vino senza motivo, avrebbe in effetti poco senso ma, per dirne una, che ci sarebbe di male a poter raccogliere una semplice graffetta? Tanto più che si tratta di un limite gestito in maniera arbitraria e incoerente, visto che non è possibile raccogliere oggetti che si trovano nella propria stanza, ma non ci sono problemi a rubarne dalla cassetta degli attrezzi dell'albergo quando ancora non si ha nessuna idea dell'utilizzo che bisognerà farne.

E ancora, perché ci sono porte chiuse a chiave, che improvvisamente non lo sono più, e che poi tornano a esserlo (o anche no) senza nessun motivo logico che non sia la necessità di sbloccare/bloccare determinate aree per far proseguire la storia su precisi binari? Ma soprattutto, diamine, perché quando serve una matita per risolvere un enigma non è possibile utilizzare LA CAZZO DI MALEDETTA MATITA CHE STO USANDO FIN DALL'INIZIO DEL GIOCO PER PRENDERE APPUNTI ma devo tornare in camera a raccogliere quella che sta nella valigia (e che ovviamente prima non potevo raccogliere)?

Fra l'altro, a proposito di prendere appunti. L'idea del block notes, su cui è possibile scrivere a piacere utilizzando il pennino, è un perfetto esempio delle belle trovate capaci di sfruttare il touch screen in maniera deliziosa. Ma è anche un perfetto esempio di quanto gli sviluppatori siano malati terminali di "vorrei ma non posso", visto che poi, quando è necessario appuntarsi un codice particolarmente lungo che va poi inserito in un terminale, bisogna farlo con carta e penna vere, dato che il blocco appunti del gioco in quel contesto è inutilizzabile.

Nonostante tutto questo, comunque, gli evidenti pregi di Hotel Dusk sono in grado di dare gran piacere a chiunque abbia la costanza e la voglia di sopportarne i palesi difetti. Certo, con un filo di sintesi in più, con un lavoro di game design maggiormente curato, si sarebbe evitata l'estrema noia che in certi frangenti riesce a generare. Invece non è accaduto, e alla fine, purtroppo, si fa davvero fatica a scacciare dalla bocca quel fastidioso retrogusto di occasione sprecata. Non ho giocato il precedente Another Code, ma leggo quasi ovunque che era peggiore sotto molti punti di vista. Che dire, speriamo che la terza sia la volta buona.

7.8.07

L'ultima casa a sinistra

The Last House on the Left (USA, 1972)
di Wes Craven
con Sandra Cassell, Lucy Grantham, David Hess, Fred Lincoln, Jeramie Rain, Marc Sheffler, Richard Towers, Cynthia Carr


Fa quasi impressione che un regista obiettivamente limitato e monocorde come Wes Craven sia riuscito a tirar fuori tre film tanto importanti e significativi, tanto decisivi nel segnare la tendenza di un intero genere. L'ultima casa a sinistra, Nightmare e Scream hanno marchiato a fuoco l'horror che sarebbe venuto negli anni successivi alla loro uscita e simboleggiano un intero decennio a testa (anche se l'ultimo dei tre se la deve giocare con Blair Witch Project, via). E questo, a Craven, non glie lo potrà mai togliere nessuno. A prescindere da qualsiasi considerazione sulla fattura dei suoi film. Senza volerli far necessariamente diventare i capolavori che non sono.

L'ultima casa a sinistra è ancor più significativo se si pensa che è stato il film d'esordio di Craven. Una pellicola povera nei mezzi e nella sostanza, il cui unico obiettivo era di dare un colpo di spugna sulla violenza sfumata e ovattata del cinema di quei tempi. "Exploitation", la chiamano, l'atto di violenza, anche sessuale, messo in primo piano e rappresentato senza pudori e senza remore. La violenza di alcuni criminali evasi nei confronti di due ragazzine e quella di due genitori impazziti di rabbia, che sfruttano come meglio non si potrebbe l'occasione di trasformare i carnefici in vittime.

Ma anche la violenza della censura, che ha macellato e sfrattagliato questo film a più riprese, al punto che per vederne una versione integrale bisogna farsi un mazzo tanto. E allora non si capisce dove finisca il taglio imposto e dove cominci il montaggio sconclusionato, con questo continuo, straniante e un po' impacciato alternarsi di momenti comici e drammatici, di musichette da carosello e coltellate nella schiena.

Ci si ritrova così in mano un film delirante, affascinante in quella sua aria lontanuccia nel tempo che finisce anche per renderlo un po' innocuo, non in grado di lasciarti addosso la sensazione di disagio che t'aspetteresti e che invece si porta tutto sommato ancora dietro Non aprite quella porta. Certo, le persone (quasi) normali di Craven fan più paura dei freak di Hooper, ma nonostante questo il film affonda il coltello nelle budella dello spettatore molto meno di quanto, probabilmente, non facesse trent'anni fa. E, insomma, è vero anche che troppa acqua è passata sotto i ponti e troppe ne abbiamo viste, tanto più che i nuovi alfieri dell'ultraviolenza cinematografica, penso ad Alexandre Aja e, soprattutto, Rob Zombie, sono registi ben più dotati e belli da vedere.

6.8.07

The Big Kahuna


The Big Kahuna (USA, 1999)
di John Swanbeck
con Kevin Spacey, Danny DeVito, Peter Facinelli


The Big Kahuna racconta una giornata nella vita di Larry, Phil e Bob, tre impiegati di un'azienda che si occupa di lubrificanti. I tre devono partecipare a una convention e hanno come primario obiettivo quello di far diventare Dick Fuller (da Larry ribattezzato "Big Kahuna") cliente della loro azienda. Ma tutto questo è solo un pretesto, da cui il film di John Swanbeck parte per raccontare delle personalità, dei differenti sistemi di valori e di quanto è racchiuso nelle testoline dei suoi personaggi.

I ritmi sono quelli della piece teatrale da cui è tratto il film, e non c'è il minimo tentativo di nasconderne le origini. Al di là di qualche digressione, l'intera pellicola è ambientata nella stessa stanza ed è basata sui dialoghi fra i tre personaggi, dominati dai monologhi di Kevin Spacey. La sua interpretazione, elegante e riuscita come sempre, tiene in piedi da sola il film, senza comunque far sfigurare il sempre ottimo DeVito e uno sconosciuto, ma efficace Peter Facinelli.

Ricco di spunti interessanti e ben recitato, The Big Kahuna soffre un certo calo di ritmo nella seconda parte, paga il fatto di credersi più divertente di quanto non sia e mi sembra, in tutta franchezza, un po' troppo inconcludente. Allo stesso tempo, però, offre spunti molto interessanti e riflessioni non banali sul modo in cui le persone si approcciano alla religione, al lavoro, alle relazioni interpersonali. Magari a teatro funzionava meglio...

5.8.07

giopep in Japan - Ziburi & party

Già che in questo momento mi è tornata la voglia, mi faccio trascinare dall'entusiasmo e proseguo coi raccontini. Questo è il primo post della serie scritto interamente a grande distanza di tempo. Ma proprio grande, eh, l'ho partorito interamente in queste ultime due settimane. Probabilmente ci saranno meno dettagli che nei primi appuntamenti, ma vabbé, è inevitabile. In ogni caso, ho il supporto delle foto, delle guide e di altre piccole cosette accumulate durante il viaggio. E poi chissà, magari mi faccio davvero prendere dalla fregola e arrivo fino in fondo...

Tokyo, 26 dicembre 2006.
Si prospetta un'altra giornata impegnativa, ma parecchio interessante. In mattinata abbiamo la visita al museo dello Studio Ghibli, mentre nel pomeriggio dobbiamo incontrarci con Kazuhisa per una gitarella dalle parti del Monte Fuji. In serata, infine, c'è la cena di fine anno con lui e i suoi amici. Ci svegliamo quindi presto e ci dirigiamo verso la stazione, pronti a partire. Purtroppo il cielo è nuvoloso e la pioggia abbastanza insistente. Il nostro ombrellino cade a pezzi e stupidamente non abbiamo pensato di prenderne uno in albergo. Ci infiliamo così in un negozietto e in qualche modo, più che altro a gesti, riesco a fare capire a un simpatico vecchietto che cosa voglio comprare.

Il signore estrae l'ombrello standard bianco da giapponese medio, lo apre per farmi vedere che è tutto a posto e me lo consegna. Già che ci sono, preso da un impeto comunicativo, riprendo a gesticolare e riesco a fargli comprendere che, se possibile, gli lascerei il nostro scassatissimo ombrello da buttare. In qualche modo ci si capisce e il signore, gentilissimo, prende in consegna il catorcio e ci saluta. Si parte, quindi, in mezzo a una marea di ombrellini tutti uguali, diretti verso la stazione di Tokyo, pronti a zompare sul trenino.

Mitaka, sede del museo, è una prefettura poco fuori città e il viaggio è breve e, come al solito, confortevolissimo. Una volta balzati fuori dal treno, ci infiliamo al volo nello Starbucks della stazione per la solita, inevitabile e abbondante razione di zuccheri. Gestita la pratica, si esce dalla stazione seguendo le indicazioni per il museo che la tappezzano e, dopo esser rimasti a bocca aperta davanti a questo simpatico gattone, si impatta con il muro di pioggia che sta venendo giù. Le indicazioni per raggiungere il museo Ghibli cominciano fin dagli scalini dentro la stazione e conducono verso la fermata dell'autobus, ovviamente decorata a dovere (così come l'autobus, che però non ho fotografato). Un po' per la scoraggiante coda, un po' per curiosità, un po' perché sappiamo che comunque la strada è breve, decidiamo di andare a piedi.

La via verso il paradiso costeggia questa specie di fossato e ci vede percorrerla stretti stretti sotto un unico ombrello (ma comprarne due pareva brutto?), che ci copre a malapena. Eppure, nonostante la pioggia, nonostante i pantaloni zuppi, nonostante, insomma, la giornata potesse essere migliore, è tutto bellissimo e meravigliosissimo. E poi, quando stai passeggiando su un marciapiede come questo, come fai a non sorridere? A un certo punto ci facciamo incuriosire da un parchettino sulla destra e ci gironzoliamo dentro un minutino. Non siamo ancora arrivati al museo, eppure l'atmosfera già comincia a sembrare fumosa e sognante. Vien da chiedersi se la zona si sia ghiblizzata per la presenza del museo, o se il museo sia stato costruito qui perché non c'era luogo più adatto. Ma d'altra parte, ancora non abbiamo visto nulla.

Ebbene sì: svoltato l'angolo in fondo alla via che collega la stazione col museo, si attraversa la strada, si supera un cancello e ci si ritrova davanti questa roba che vedete in foto. Una bella insegna tutta arzigogolata, una costruzione che sembra davvero uscita da un episodio di Conan e un Totorone a far da bigliettaro. E si comincia a sorridere come deficenti, magari facendo caso ai batuffolosissimi Makkuro Kurosuke che ci osservano incuriositi attraverso quell'oblò in basso. Procediamo ridendo come due ebeti, ci mettiamo diligentemente in fila e veniamo accolti dai soliti, servizievoli e adorabili nippoinservienti. Ci viene spiegato che all'interno dell'edificio non è possibile scattare fotografie (e certo, devi comprare il catalogo) e ci vengono consegnati biglietti e bigliettini assortiti. Dopodiché ci si inoltra (e qui smetto un attimo di scrivere ed estraggo il catalogo, che ovviamente abbiamo comprato e mi sarà utile per far tornare alla memoria qualche ricordo in più).

Il primo impatto con gli interni del museo non rende neanche minimamente l'idea di cosa si troverà due passi più avanti. Certo, c'è qualche decorazione a tema, ci sono i bambini giapponesi che ti camminano attorno tutti contenti, c'è la sensazione di stare per entrarci, ma ancora non ti rendi conto. Scendi le scale, svolti a destra e approfitti dei portaombrelli e degli armadietti per appoggiare quel che non ti serve. Leggi gli avvisi e le indicazioni, su cui ne svetta una particolarmente piacevole secondo la quale non esiste, per questo museo, un percorso suggerito. L'idea è di farti entrare in un altro mondo, nel quale puoi divertirti a vagare e gironzolare seguendo il naso, l'istinto, la magia.

Ci siamo, sarebbe il momento di buttarsi, ma alla mia destra noto che le vetrate danno sul cortile interno e mi ci avventuro per gettare un occhio e scattare la manciata di foto che infilo qui sotto. A questo punto già si fa evidente la spettacolare cura con cui ogni cosa, anche la minima stronzata in cortile, è rifinita. Tutto serve a creare un'atmosfera da mondo magico e fiabesco. Ma in realtà, ancora non mi rendo bene conto.





Si entra nel museo vero e proprio e... mamma mia! Cercherò di non entrare troppo nei dettagli, perché è davvero una cosa che va visitata, per capirla, ma qualche cazzatiella la voglio raccontare e per farlo, beh, sfrutto il supporto del catalogo. Appena entrati, ci si trova in una sorta di grossa hall, con aperture, passaggi angusti, porte e porticine, scalinate di vario tipo, ascensori e mille altre cose, tutte minuziosamente decorate e rifinite. Perfino i bagni sono da sogno a occhi aperti.

Accarezzati da una tenue melodia di sottofondo, ci infiliamo in una stanza sulla destra, dove si trova una serie di oggetti, macchinari e diavolerie da esposizione, che illustrano in maniera poetica e affascinante la storia del mondo dell'animazione. Francamente, comincio ad essere quasi commosso per quello che sto vedendo e posso solo immaginare come debba essere l'esperienza per un bimbo lasciato a piede libero qua dentro. Dopo aver vagato a bocca spalancata per quest'area, giocherellando, toccando e pastrugnando tutto quanto, torniamo nella hall e decidiamo di salire, ovviamente non con l'ascensore o le scale normali, ma sfruttando una specie di scala a chiocciola angusta e piccolina, rinchiusa dentro una gabbia.

Al primo piano, fra vetrate splendidamente decorate, maniglie rifinite con gioielli e animalini strani, porte messe lì solo per curiosare, trovano spazio l'area dedicata alle mostre temporanee (a dicembre ce n'era una deliziosa sul lavoro della Aardman Animations) e il negozio. Esploriamo per bene l'esposizione, giocherellando con tutto quel che c'è da toccare, e decidiamo per il momento di schivare il negozio, ben sapendo che prima o poi ci toccherà entrare in quel luogo di perdizione. Al terzo piano, lo shock: un enorme gattobus, peloso e morbidissimo, pieno di bambini che ci si tuffano dentro come disperati. La tentazione di saltarci sopra è fortissima, ma sono costretto a trattenermi.

Mentre vago con lo sguardo perso nel vuoto, noto una porta. La apro, dietro c'è uno specchio. Ridacchiando, vado ad aprire un'altra porta: dà semplicemente sull'altro lato, dove c'è un tizio con il figlio in braccio. Ci guardiamo per un attimo e ci mettiamo a ridere. Sopprimendo il desiderio di saltare in testa ai bambini che giocano col gattobus, usciamo sulla balconata, dove giocherello con degli strani affari e osservo i passanti. Ci inerpichiamo lungo una scala a chiocciola per raggiungere il tetto della costruzione, dove una simpatica inserviente ci fotografa assieme al robot di Laputa. Ma se il robot è l'attrazione principale del tetto, inoltrandosi lungo un sentiero e passando di fianco al cupolone si raggiunge anche questo coso.

Dopo aver scattato una foto dall'alto, decidiamo di tornare giù per la scaletta, ovviamente facendo attenzione alla testa. Torniamo dentro e continuiamo a esplorare l'ultimo piano, scovando una biblioteca che contiene libri per bambini da tutto il mondo e infilandoci poi nella spettacolare riproduzione dello studio di Hayao Miyazaki. Qui dentro si trova di tutto, i libri che usa per documentarsi, statue e oggetti vari, bauli talmente pieni di roba da far paura, disegni, delizie e curiosità. Ci son perfino libroni di storyboard, da Porco Rosso a Nausicaa, abbandonati lì per la consultazione. E ovviamente non manca l'angolino per il piccolo cineasta, in cui giocherellare con obiettivi, pellicole e cineprese.

Siamo tutti a bocca aperta, io, la Rumi, i bambini e i genitori. Una favola, questo posto è una favola, e io non sono davvero in grado di raccontarlo come si deve. Oltretutto il tempo passa, poco oltre ora di pranzo abbiamo appuntamento con Kazuhisa e c'è ancora tanta roba da fare. Torniamo giù al piano terra e ci mettiamo in coda per la proiezione. Nel cinemino interno, infatti, vengono proiettati cortometraggi realizzati appositamente e con un ricambio penso abbastanza frequente (tant'è che il cortometraggio che andremo a vedere non è segnalato nel catalogo). Ovviamente la sala di proiezione è arredata da star male, come bello da star male è il cortometraggio, ambientato su un mondo fuori di testa tanto quanto il posto in cui ci troviamo.

Dopo il film, ci vuole la pappa. Torniamo su, usciamo, passiamo davanti a una finestra da cui due gatti ci osservano, e decidiamo di non fare la coda per entrare nella pasticceria. Ci limitiamo a scrutare i cuochi che preparano torte spettacolari mentre attendiamo il nostro hot dog. Dopo aver consumato, esserci rilassati e aver esplorato ulteriormente gli esterni, è il momento di tuffarsi nel negozio. Ed è il delirio, sia di gente che si accalca sugli scaffali, sia di oggetti e oggettini che escono dalle fottute pareti e ti urlano "comprami, comprami". A colpi di regali per amici e stronzate da portare a casa per noi, ovviamente, ci riempiamo di sacchetti. Fra gli acquisti effettuati, segnalo un pelosissimo Makkuro Kurosuke, il calendario di Kiki, la deliziosa tazza di Totoro, il già citato catalogo del museo e chissà quali altre cose che adesso mi sfuggono.

E, a proposito di sfuggire, è il momento di farlo, abbandonando questo luogo di perdizione: subito fuori, sotto il diluvio universale, coperti da un tendone, in attesa di Kazuhisa. Kazuhisa che non arriva, probabilmente perché bloccato dal traffico. Decidiamo di provare a chiamarlo da un telefono pubblico (che ovviamente trovo solo dopo essermi spiegato a gestacci con un simpatico vecchietto) ma, proprio mentre tiro su la cornetta, Elena lo avvista. Zompiamo in macchina e si parte, diretti verso la città: come ovvio, il tempaccio sconsiglia la gita al Monte Fuji. In compenso, il traffico sconsiglia la vita. Mi sento a casa, non ci si muove neanche per sbaglio e così decidiamo di fermarci a una specie di fast food, un posto che Kazuhisa sostiene essere molto popolare e in cui fanno cucina asiatica sui generis, con curry sparso un po' dovunque.

La pappa non è affatto male, la chiacchiera è piacevolissima e Elena si concede anche il lusso del dolce, generando un commento di Kazuhisa, una cosa tipo: "Noi giapponesi mangiamo di fretta e poi fuggiamo, voi italiani ve la prendete comoda, restate al tavolo, vi rilassate, il dolce, il caffé..." Oddio, io in questo sono in realtà molto giapponese, ma vabbé, lasciamo stare. Mentre mi affretto a pagare il conto, compio la tragedia e faccio cadere per terra, sfondandola, la meno peggio delle due macchinette fotografiche a disposizione. E infatti, da adesso in poi, la qualità delle foto (soprattutto in notturna) e dei filmati peggiorerà sensibilmente. Le foto venute meglio, per capirci, sono quelle scattate con la macchina di Kazuhisa.

Una volta usciti dal ristorante, decidiamo di separarci: io ed Elena pigliamo la metro per andare a visitare il Tokyo National Museum e l'appuntamento con Kazuhisa rimane fissato per la prima serata, dalle parti di Ueno. In realtà, una volta giunti a Ueno, decidiamo di fregarcene del museo e infilarci da Yamashiroya, pronti a spendere un'altra svagonata di quattrini in gadget e fesserie. Ne usciamo carichi come muli, pronti a raggiungere Kazuhisa sul luogo dell'appuntamento. Ovviamente fra pioggia, buio e totale perdita dell'orientamento, impieghiamo mezz'ora a fare cinquanta metri, ma alla fine ci becchiamo, e si parte in macchina verso casa Akutagawa, zona Ikebukuro.

Kazuhisa, gentilissimo, ci accoglie in casa sua, la tipica villettina in cui ti aspetti di veder spuntare fuori all'improvviso un bambino pallido e dallo sguardo vitreo o un fantasma di donna coi capelli lunghi e nerissimi. Ci leviamo (non senza qualche impaccio) le scarpe ed entriamo. La temperatura è bassina, e infatti sul tavolino è appoggiata una meravigliosa termocoperta, sotto la quale infiliamo tutti le gambe. Si chiacchiera del più e del meno, un po' a fatica, ma è normale, con Kazuhisa e la sua simpatica moglie. Kazu si dispiace perché ha un solo pad e non può sfidarmi a Winning Eleven, ma vabbé, sopravviviamo al dolore. Mentre sorseggiamo un the, attendiamo l'ora di uscire e poi, finalmente, si parte, lasciando a casa la donna e dirigendoci verso il luogo del misfatto.

Ci si sposta coi mezzi, quindi recuperiamo tutti i vari sacchetti, che poi depositiamo nei soliti armadietti della metropolitana (grazie mille a chi li ha inventati). E quindi via verso il locale, un ristorante nel quale ci è stata riservata un'intera sala, con due tavolate. Qui ritroviamo buona parte della gente con cui ho giocato a calcetto il 23 dicembre, le rispettive fidanzate e una simpatica figliola (la foto non le rende giustizia), chiaramente più giovane di chiunque altro sia presente, che non si capisce bene da dove sia giunta. Io comunque la stimo, perché a un certo punto esprime in italiano stentato il suo apprezzamento per la mia bellezza (ma probabilmente l'avrebbe detto a qualsiasi occidentale si fosse seduto a quel tavolo).

Ricordandomi di aver letto che a tavola fra giapponesi non bisogna versarsi da bere, ma bisogna farlo per gli altri, mi calo subito nel personaggio e comincio a versare birra a chiunque mi passi davanti, venendo ricompensato di conseguenza. Il metodo funziona: praticamente il bicchiere è sempre pieno e non hai modo di svuotarlo, perché appena lo appoggi sul tavolo c'è qualcuno pronto a riempirtelo. Le bottiglie di birra arrivano a getto continuo e la serata promette malissimo, anche se per fortuna i danni vengono limitati dal cibo. Inizialmente ci si limita a qualche delizioso stuzzichino, ma poi, appena i ragazzi si rendono conto di avere a che fare con delle ottime forchette, si spalancano i cancelli delle vivande. Il ragazzo seduto di fianco a me mi tempesta di domande stile "hai mangiato questo?", "hai provato quello?" e per ogni risposta negativa arriva un'ordinazione di conseguenza. Burp.

A proposito di ragazzo di fianco a me, trattasi di una specie di Cobra (chi deve sapere sa) giapponese, che tanti anni fa ha vissuto in Germania e per questo parla un buon inglese. Trascorro quasi tutta la serata chiacchierando con lui, mentre Elena fa altrettanto con la ragazza che mi aveva fatto da interprete il giorno del calcetto (non ricordo i nomi, uffa). Oltre a questo, ovviamente, l'alcool favorisce il delirio e in qualche modo si riesce a "conversare" - magari citando nomi di sportivi, o commentando l'arrivo in tavola di una bottiglia di vino italiano gelido (non ricordo quale, Elena potrà sicuramente integrare l'informazione con un commento) - anche con chi non spiccica una parola in inglese. Soprattutto con lo scemo del gruppo, un ragazzo simpaticissimo e stracazzaro. Oltretutto Kazuhisa, l'organizzatore, si è preoccupato di far avere a tutti (ovviamente sul telefonino) un email con un minidizionario italiano-giapponese. Non servirà a molto, se non a generare scene da sit-com con gente che mi dice cose senza senso lasciandomi perplesso, ma il pensiero è delizioso (e comunque trovarsi assieme a una quindicina di giapponesi che ogni trenta secondi alza il calice e urla "ALLA SALUTE!!!" è fantastico).

La splendida serata si conclude con una difficoltosa quest per il recupero dei sacchetti (varie sezioni della stazione della metropolitana, dopo un certo orario, vengono chiuse, e per tornare agli armadietti abbiamo dovuto fare un giro allucinante, non reso più semplice dallo stato alcolico), con gli un po' tristi saluti a gente che chissà quando rivedremo e con una fuga verso casa, pronti a morire. E la morte viene accolta a braccia aperte, anche perché il 27 sarà l'ultimo giorno pieno trascorso a Tokyo e di cose che vogliamo vedere ce ne sono non poche.









Altre cose
Mitaka
Da quel poco che abbiamo visto (la giornata non si prestava particolarmente alle passeggiate), Mitaka ci è parsa una cittadina deliziosa. Al punto che, in caso di tempo un po' più clemente, potrebbe valere la pena di dedicare un'intera giornata alla gitarella, così da poter visitare con calma il museo e ciò che gli sta attorno (per esempio il promettente parco Inokashira). Per arrivare, comunque, è sufficiente zompare sulla JR Chuo Line, che si incrocia con la Yamanote in più di una fermata (per esempio Shinjuku e Tokyo). Il viaggio dura una mezzoretta e la linea è coperta dal Japan Rail Pass. Questo, comunque, è il sito ufficiale di Mitaka.

Museo d'Arte Ghibli
Ho seri dubbi che chi segue questo blog non sappia cosa sia lo Studio Ghibli, ma giusto per andare sul sicuro lo dico: è, più o meno, la casa di produzione cui fanno capo Hayao Miyazaki e Isao Takahata, vale a dire due fra i registi giapponesi di film d'animazione più amati e riveriti in assoluto. I giapponesi, perlomeno quelli con cui abbiamo avuto a che fare, "Ghibli" lo pronunciano (e scrivono, se devono usare caratteri occidentali) "Ziburi". Qui trovate il sito ufficiale (in giapponese). Il Museo d'Arte Ghibli (scritto proprio così, eh, in italiano) è un posto delizioso, che davvero non saprei come altro descrivere. Se passate da Tokyo, una visita se la merita senza dubbio. Occhio, però, perché bisogna prenotare! Per evitare che si crei troppa ressa, infatti, c'è un limite al numero di visitatori ammessi nell'arco di una giornata. Sappiate, quindi, che se avete la sfiga di presentarvi senza biglietto in un giorno molto affollato potrebbe finire male. Comunque, il biglietto si può comprare in più modi, su cui non mi dilungo perché sono ottimamente spiegati qui, con tanto di mappette. Per la cronaca, noi l'abbiamo prenotato in anticipo tramite JTB Italia e ci siamo trovati molto bene.
Il sito ufficiale del museo.
La pagina con le indicazioni per l'acquisto dei biglietti.
La pagina del sito di JTB Italia con le indicazioni per l'acquisto dei voucher.

 
cookieassistant.com