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31.3.06

Maneggiare con cura


Maneggiare con cura (USA, 2004)
di Joe R. Lansdale


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L'arena (1987)
Girovagando nell'estate del '68 (1990)
Godzilla in riabilitazione (1994)
La bambola gonfiabile: una favola (1991)
Un signor giardiniere (1993)
Piccole suture sulla schiena di un morto (1986)
La notte dei pesci (1982)
Nel deserto delle Cadillac, con i morti (1989)
I treni che non abbiamo preso (1987)
La notte che si persero il film dell'orrore (1988)
Non viene da Detroit (1988)
Incidente su una strada di montagna (e dintorni) (1991)
Una serata al drive-in (1990)
L'inferno visto dal parabrezza (1994)
Eccitarsi per l'horror: emozioni a basso costo (1994)
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Da brava raccolta di racconti brevi, Maneggiare con cura riassume alla perfezione buona parte del variegato "universo" narrativo di Joe R. Lansdale. Poco oltre un decennio di scritti che spaziano fra l'horror e il comico, fra l'avventura a episodi e il saggio di approfondimento. C'è veramente di tutto e per tutti i palati, anche se lo stile sferzante e il gusto per il macabro tipici dello scrittore texano fanno senza dubbio da filo conduttore.

Leggendo questa ottima raccolta, ci si imbatte in divertiti e divertenti omaggi a icone popolari come Godzilla, gli zombie di Romero o gli horror fantascientifici modello Giorno dei trifidi, ci si emoziona con struggenti e poetiche storie d'amore, ci si avventura terrorizzati sui binari di angoscianti divagazioni horror. Lansdale viaggia di traverso fra i generi, miscela stili e registri, rende anche il più risibile degli spunti un racconto perlomeno intrigante.

Ma, forse, Maneggiare con cura dà il meglio quando, per esempio in Una serata al drive-in, riesce a ritrarre come quotidiano e pacifico l'orrore più puro, rendendo di una semplicità e una normalità agghiacciante gli atti più crudeli. O magari quando si mette ad analizzare il cinema horror di serie B raffrontandolo alle parabole di Nuovo e Vecchio Testamento...

30.3.06

X-Files - Il film


The X-Files (USA/Canada, 1998)
di
Rob Bowman
con
David Duchovny, Gillian Anderson, William B. Davis, Martin Landau, Mitch Pileggi

Concepito nel momento di massimo splendore della serie, il film che vede l'esordio sul grande schermo di Mulder e Scully non si preoccupa minimamente di nascondere la sua reale natura. Il tentativo di dare vita a una storia autoconclusiva e comunque godibile è anche meno che abbozzato e, a conti fatti, la pellicola nota anche come Fight the Future può risultare davvero criptica e incomprensibile per chi non ha seguito le prime cinque stagioni del telefilm.

L'annata subito precedente all'uscita del film fu caratterizzata da sole venti puntate (minimo storico per la serie di Chris Carter) e i motivi appaiono evidenti. L'uscita cinematografica rappresentava l'opportunità per realizzare il classico episodio conclusivo in due parti con un budget molto più elevato e sfruttando il maggiore senso di spettacolarità dato dal grande schermo.

E così, questo X-Files di celluloide riprende il discorso esattamente da dove si era interrotto, introduce una nuova minaccia a uso e consumo dello spettatore occasionale, ma si preoccupa soprattutto di fare da trait d'union fra quinta e sesta stagione. Il risultato è un film estremamente televisivo nei ritmi e nella scrittura, ma anche un telefilm estremamente cinematografico nella capacità di dare un senso epico alle vicende e nella spettacolarità della messa in scena.

X-Files - Il film, insomma, non ha alcun senso che non sia quello di episodio "dopato" della serie. Se decontestualizzato, diventa una pellicola francamente mediocre. Se preso per quel che vuole essere, svolge alla perfezione il suo dovere.

29.3.06

X-Files - Stagione 5


The X-Files - Season 5 (USA, 1997/1998)
creato da Chris Carter
con David Duchovny, Gillian Anderson


Mantenersi sugli strepitosi livelli della quarta stagione di X-Files, forse la migliore in assoluto, per di più con l'obbligo di creare i presupposti narrativi per giungere all'esordio cinematografico, non era affatto facile. E infatti Chris Carter e compagni non ce l'hanno fatta. Ma tutto sommato il bersaglio è stato mancato di poco e questa quinta annata resta ancora oggi una visione piacevolissima.

Intelligentemente gli autori scelgono di non ripetersi e abbandonano la svolta horror della quarta stagione. Il mirino, quindi, non resta più fissato sul gusto per l'orrido e sulla ricerca dello shock, anche se le atmosfere, come ovvio, rimangono molto cupe. Così ci troviamo con venti puntate in cui X-Files si diverte a giocare con se stesso, utilizzando molta autoironia, manipolando i suoi stereotipi e sperimentando con le immagini. Episodi divertentissimi come Chinga e Bad Blood rappresentano alla perfezione questo spirito, che comunque non monopolizza una stagione al contrario molto eterogenea.

Un tema portante è senza dubbio quello dell'approfondimento sui trascorsi e sulle profonde motivazioni dei personaggi. Andiamo così a scoprire la nascita dell'amicizia fra Mulder e i Pistoleri Solitari, a indagare sul rapporto fra Fox e il padre, a conoscere personaggi del passato e nuovi interessanti protagonisti. Più in generale, se si esclude qualche scivolone (Kill Switch su tutti), è difficile andare a criticare il singolo episodio. Lascia perplessi, invece, ciò che al contrario aveva davvero convinto nell'annata precedente: gli episodi della cosiddetta mitologia.

Le puntate - generalmente in due parti - che portano avanti il discorso sugli alieni (i quali, apprendiamo, stanno pianificando una colonizzazione) gettano molta carne al fuoco, ma mancano un po' di coesione. I nuovi elementi introdotti affascinano, ma sembra quasi che si stia cercando di tirare fuori tutto in fretta e furia, per fare poi ordine più avanti. Forse pesa anche la voglia di rendere, come spesso accade nei telefilm americani, la quinta stagione un punto di arrivo e di (ri)partenza, con numerosi temi pronti ad essere sfruttati in seguito.

Un anno di transizione, insomma, senza dubbio importante per l'aggiunta di tasselli decisivi in quello che è il grande e incasinato mosaico su cui indagano Mulder e Scully. Ma, nonostante tutto, anche un anno di ottima televione, capace di passare da esilaranti divertissement (The Post-Modern Prometheus) a originali divagazioni (The Pine Bluff Variant) e a racconti di grande intensità (Mind's Eye).

28.3.06

La santa trinità


Si è concluso il draft tramite il quale abbiamo composto le squadre con cui affronteremo il FROGEvolution Soccer Tour 2, secondo campionato interredazionale di Pro Evolution Soccer 5. Qualche tempo fa abbiamo disputato un primo torneo, vinto dalla Juventus di Patriarca, e la relativa coppa di lega, vinta dal Milan di SS. Questa volta abbiamo deciso di creare le squadre, scegliendoci 26 giocatori a testa con cui comporle. C'è stato tutto un complesso procedimento per estrarre i turni di scelta, basato su calcoli delle probabilità che non sto qui a spiegare. Al di là di questo, l'unica vera regola è che si potevano scegliere al massimo tre giocatori storici (i campioni del passato) per squadra. Ci saranno poi anche un mercato di riparazione e un mercato degli scambi, quest'ultimo gestito in maniera assolutamente free, per quanto sempre col limite dei tre storici. Ah, rispetto al precedente torneo, si sono aggiunti due partecipanti: Sami e Marco "Rulla" Auletta.

Questi sono gli uomini che hanno accettato di giocare nell'Edicola di giopep. Sono i miei ragazzi e ne vado molto fiero.

Portieri
Hildebrand, Timo (Germania)
Rustu, Recber (Turchia)
Schmeichel, Peter (Danimarca)

Difensori
Bordon, Marcelo (Brasile)
Bridge, Wayne (Inghilterra)
Gavrancic, Goran (Serbia e Montenegro)
Hinkel, Andreas (Germania)
Jankulovski, Marek (Repubblica Ceca)
Lucio (Brasile)
Martinez, Gilberto (Costa Rica)
Stam, Jap (Olanda)
Trabelsi, Hatem (Tunisia)

Centrocampisti
Duff, Damien (Irlanda)
Essien, Michael (Ghana)
Giuly, Ludovic (Francia)
Kewell, Harry (Australia)
Laudrup, Michael (Danimarca)
Ljungberg, Fredrik (Svezia)
Rommedahl, Dennis (Danimarca)
Rosicky, Tomas (Repubblica Ceca)
Van Bommel, Mark (Olanda)

Attaccanti
Eto'o, Samuel (Cameroon)
Henry, Thierry (Francia)
Larsson, Henrik (Svezia)
Laudrup, Brian (Danimarca)
Saha, Louis (Francia)

27.3.06

Doom


Doom (USA/Repubblica Ceca, 2005)
di Andrzej Bartkowiak
con The Rock, Karl Urban, Rosamund Pike


Doom è un ottimo esempio di "budda budda movie". Una colossale fesseria, certo, ma confezionata con del mestiere, senza scivolare nello sgrammaticato dilettantismo di un Uwe Boll o concedersi più di tanto al "videoclipparismo". Doom si limita solo ad essere estremamente banale e prevedibile, oltre che a mettere in scena un buon numero di ammiccamenti per il conoscitore del videogioco.

Il film di Bartkowiak, in sostanza, fa il suo dovere. Racconta di personaggi piatti il giusto e che hanno il solo compito di essere carne da macello. Li prende, li arma, li piazza in corridoi angusti e li mette di fronte a una serie di creature demoniache da (cui farsi) massacrare. Fa, insomma, tutto ciò che è lecito attendersi dal film basato sullo sparatutto per antonomasia e oltretutto lo fa appoggiandosi sulle spalle di The Rock, che si conferma ancora una volta come ottimo Arnold Schwarzenegger del nuovo millennio.

Ogni singolo elemento di Doom, dai personaggi, ai dialoghi, alle svolte del plot, è tagliato con l'accetta. Ma i tagli sono precisi, non mancano mai il bersaglio. Nessun dialogo memorabile, ma anche nessuna battuta da far cadere le palle. Nessuna sequenza d'azione particolarmente degna di nota, ma anche nessun netto tonfo. Delude forse un po' il design dei mostri, per lo più poco ispirato, ma di sicuro centrano il bersaglio almeno un paio di idee (per esempio le nano-porte).

Insomma, stiamo parlando di una scemenza media, che non eccelle e non sorprende, ma alla fin fine scorre via tranquilla. Certo, va presa con lo spirito giusto, ma con quale altro spirito si può trovare il coraggio di mettersi a guardare un film del genere? E certo, buona parte del gusto sta nel conoscere le citazioni e i meccanismi di gioco con cui gli sceneggiatori si sono divertiti. Ma tutto questo, alla fin fine, permette a chi sa di cosa si sta parlando di divertirsi con il BFG, il mostro pseudo-canino e le mille altre citazioni, compresa la sequenza FPS.

Sì, perché c'è anche quella, ed è l'unico momento davvero genuino del film. Han trovato perfino il modo di darle una giustificazione narrativa, e l'hanno piazzata lì, verso la fine: cinque minuti abbondanti di soggettiva, splendida, perfetta, che riproduce incredibilmente bene il feeling di un vero sparatutto in prima persona, e viene perfino accompagnata dal tema musicale del primo Doom. E il cerchio fatto di citazioni e gomitate sul fianco dello spettatore si chiude poi con un bel deathmatch e con Trent Reznor tutto impegnato a urlare "Don't you fucking know what you are?" sui titoli di coda.

Insomma, Resident Evil aveva forse alle spalle qualche idea (anche di cinema) in più, ma Doom riesce comunque nel - facile, va detto - compito di guardare dall'alto verso il basso qualsiasi altra pellicola tratta da un videogioco. In attesa del promettente Silent Hill.

25.3.06

V per vendetta


V for Vendetta (USA/Germania, 2005)
di James McTeigue
con Hugo Weaving, Natalie Portman, Stephen Rea, Stephen Fry, John Hurt

V for Vendetta è l'ennesimo film politico e politicizzato di una stagione hollywoodiana estremamente impegnata e che, del resto, rispecchia il sentimento di disagio dell'americano medio nei confronti di un governo retto da un palese ritardato. La pellicola di James McTeigue riesce in un compito non semplice, coniugando alla perfezione l'estetica patinata e i ritmi sincopati del classico "pop corn movie" americano con la voglia di dare un messaggio forte e importante, seppur in maniera un po' anestetizzata.

La graphic novel in cui il film affonda le sue radici l'ho letta una decina almeno di anni fa, quando probabilmente neanche ero in grado di afferrarne fino in fondo i contenuti e, soprattutto, in un'epoca sufficientemente lontana da non farmene ricordare una beneamata fava. Tornato dal cinema, però, sono andato a curiosare in giro per scoprire cosa e come gli sceneggiatori hanno modificato, visto che, oltretutto, per l'ennesima volta, Alan Moore ha scelto di tirarsela e ha preteso che il suo nome non apparisse nei titoli di coda.

Sicuramente, come detto, il sottotesto politico è stato ammorbidito, ma ci sono anche altre modifiche nell'intreccio, comunque a mio parere per la maggior parte molto azzeccate. La relazione sentimentale più esplicita fra i due protagonisti, ad esempio, mi è parsa scritta molto bene ed estremamente romantica. Le scene d'azione aggiunte sono ben realizzate e, soprattutto, perfette nel contesto citato in apertura, di fusione fra film impegnato e allo stesso tempo di facile lettura. E poi, l'aver scelto di "snellire" l'ambientazione, dando vita a un futuro sì opprimente e cupo, ma non devastante e devastato come quello originale, ha permesso di mettere in scena un contesto estremamente credibile e agghiacciante, proprio perché molto vicino a quello in cui viviamo.

Ma tutte queste considerazioni restano nell'ambito della curiosità personale, dato che, lo ribadisco per l'ennesima volta, il mio approccio nei confronti di un adattamento per il grande schermo non vede e non vedrà mai la fedeltà al testo originale come elemento di critica, ma solo come interessante spunto di cui chiacchierare. A maggior ragione quando il film, come in questo caso, è un ottimo film, estremamente ben realizzato, scritto in maniera solida e appassionante, con pochi reali difetti.

McTeigue dirige la scena con buona padronanza, senza dubbio sfrutta molto di quanto imparato alla corte dei Wachowski, non solo nell'esplicito citarli durante le sequenze d'azione, ma anche nella fissazione per i dettagli e nell'utilizzo assiduo di simbolismi più o meno evidenti (e comunque in buona parte derivati dal fumetto di Moore e Lloyd). E, al di là di tutto, riesce a dare alla pellicola una sua impronta abbastanza personale.

A voler cercare il pelo nell'uovo, comunque, ci sono elementi di V for Vendetta che mi hanno lasciato perplesso. Per esempio la figura del cancelliere, davvero troppo sopra le righe e caricaturale, specie in un contesto che vede qualsiasi altro personaggio, anche il più tagliato con l'accetta, almeno un po' caratterizzato e umanizzato. Probabilmente si voleva creare un personaggio simbolico, anche da contrapporre al simbolo che il protagonista V sostiene di voler essere, ma alla fine ne esce un po' indebolita l'altrimenti estrema credibilità della vicenda. E a volerla dire proprio tutta, i minuti finali potevano essere un po' più asciutti, meno tirati per le lunghe.

Ma, come detto, si sta cercando il pelo nell'uovo. V for Vendetta è ottimo cinema di intrattenimento, curato nella messa in scena e molto ben scritto. Non solo, è anche cinema impegnato, portatore di un messaggio non banale e non facile in un contesto hollywoodiano. Sarebbe ridicolo lamentarsi.

21.3.06

Il grande inverno


A Game of Thrones (USA, 1996)
di George R. R. Martin


Qualche anno fa, credo quattro o cinque, il Dottore mi raccontava di una saga "fantasy ma non fantasy", che - ricordo - aveva qualcosa a che fare coi lupi. La stava leggendo e me la consigliava, incuriosendomi non poco, anche se poi non intrapresi la lettura. Tre o quattro anni dopo, improvvisamente, tutti conoscevano Le cronache del ghiaccio e del fuoco, tutti le stavano leggendo e tutti mi importunavano sostenendo che "è una figata", "èbBbellissimissimo", "devi troppo leggerlo" e via dicendo. Alla fine ho ceduto e ho letto il primo dei due volumi in cui il primo tomo originale è stato diviso nella versione italiana.

Ovviamente, quando le aspettative montano a dismisura, il rischio della delusione è sempre dietro l'angolo. E infatti, dopo aver letto Il trono di spade, rimasi con un certo senso di insoddisfazione. Un romanzo francamente poco più che modesto, scritto in maniera di sicuro appassionante, ma tutt'altro che esaltante. Di recente, parecchi mesi dopo, ho deciso di affrontare la seconda parte, incontrando subito uno scoglio colossale: dopo un paio di mesi in cui ho letto praticamente solo saggi di stampo giornalistico e libri di Lansdale, la prosa fantasy è semplicemente insostenibile.

Ad ogni descrizione del poetico ruscello o dell'epica cavalcata mi cadevano le palle. Dopo una cinquantina di pagine ci ho fatto l'abitudine, e quello stile pomposo si limitava a darmi qualche brivido lungo la schiena. Passata la boa del centinaio, mi sono fatto prendere dagli eventi e mi sono lasciato trasportare, ritrovando i ritmi concitati e appassionanti della prima parte. Ma anche gli stessi difetti.

La saga di Martin ha sicuramente un pregio, ed è quello di distaccarsi abbastanza dagli stereotipi più classici e banali del fantasy. Insomma, non c'è la trita e ritrita storia del gruppetto di eroi/amici impegnati a cercare la super arma finale per sconfiggere la reincarnazione del male. Anche perché tirarla avanti per tutti quei libri sarebbe stato angosciante. Invece lo scrittore americano ha messo in piedi una specie di mega sceneggiato ad ambientazione cavalleresca, in cui l'elemento fantastico è senza dubbio presente, ma non preponderante. A tenere banco sono le classiche regole del seriale all'americana, con tutti i loro pregi e i loro difetti.

Il difetto più grosso, almeno dal mio punto di vista, è proprio questo seguire pedissequamente gli stilemi di quella narrativa. Ovviamente non posso sapere che piega prenderanno gli eventi in seguito, ma nel primo libro (o nei primi due, fate voi) succede esattamente tutto quello che deve succedere. Per chi è anche solo un po' avvezzo alla narrazione per episodi - e io, fra telefilm, cartoni animati e fumetti, un po' lo sono - non c'è evento di questo primo volume che non sia telefonato almeno cinquanta pagine prima. Ma telefonato, passato in filodiffusione e, nel dubbio, pure telegrafato.

Tutto, dal colpo di scena all'evento di minore importanza, è di una prevedibilità quasi disarmante. Lo stesso cliffhanger finale, segue talmente bene tali regole che potrebbe tranquillamente apparire sulla splash page conclusiva di un fumetto Marvel o nell'ultima inquadratura di un telefilm americano, con tanto di "to be continued" in basso a sinistra. E, per inciso, è una conclusione perfetta nel far venire voglia di leggere il secondo volume. Ma infatti tutto questo non rende certo Il grande inverno (e Il trono di spade, ovviamente) un brutto libro, anzi.

Come detto, Martin scrive in maniera estremamente coinvolgente e conosce fin troppo bene i meccanismi con cui gioca. Non a caso, per dirne una, ha messo assieme un cast di personaggi sconfinato e molto ben caratterizzato, al punto che, se decide di piantare lì una bella morte drammatica, gli basta sparare nel mucchio. A dirla tutta, una scelta stilistica che ho trovato un po' ridondante c'è: impostare un intero romanzo (un'intera saga?) sul "montaggio incrociato" à la George Lucas, alla lunga, può stancare il lettore. Comunque, alla fin fine, parere positivo, curiosità di andare avanti, solo incapacità di condividere l'entusiasmo che ho visto e sentito gravitare attorno alla saga. Magari, coi volumi successivi...

"Nooo, la Hoegaarden, è la mia preferita, è buonissima!"


Per presentarci un videogioco di ping pong in uscita su Xbox 360, Take 2 Italia ha organizzato in Future un piccolo torneo fra noi redattori.
Ovviamente ho dato la mia disponibilità a partecipare. Oggi, però, in pausa pranzo mi sono assentato a lungo per fare una commissione.
Quando sono tornato, ho visto che il torneo era già in corso, e ho pensato: "Vabbé, son tornato tardi, pace".

Vado a sedermi, mi chiamano e mi dicono "tocca a te".
Si partiva dagli ottavi di finale e, in sostanza, ero tornato per tempo.

Ah, si giocavano partite al meglio dei tre game, il game si vinceva con 11 punti.

Agli ottavi di finale ho sderenato Riky, il grafico di TGM.
L'ho lasciato a due.

Ai quarti di finale ho squartato Babich, che ha fatto qualcosa in più di Riky, ma pochino.

In semifinale contro Alepolli, finalmente, delle difficoltà.
Primo game tiratissimo, si arriva sull'otto pari, poi Polli parte via e va a vincere.
Nel secondo game prendo il controllo: 10 a 0. Finirà 11 a 1.
Il terzo game, ancora, è stato molto equilibrato fino se non sbaglio all'otto pari, poi ho preso il largo.

Notare che nel secondo e terzo turno ho eliminato entrambi i membri della redazione Xbox.
:D

In finale, come è solo giusto che sia, ho incontrato Patriarca.
Primo game tirato, indovinate un po', fino all'otto pari (circa, adesso non so se era davvero sempre otto a otto, comunque era in quella "zona").
Poi parto e vado a vincere.
Secondo game splendido, punto a punto, continui sorpassi e controsorpassi.
Sul sette pari (qui davvero, me lo ricordo), lo stacco e vado 10 a 7.
Mi annulla tre match point.
11 a 10.
Mi annulla un altro match point.
12 a 11.
Gli pianto il match point su per il culo.

O forse è finita 13 a 12?
Boh.
:D

Comunque, ho vinto.
I premi:
- cappellino rockstar
- maglietta rockstar
- scatolozza da 24 bottiglie (33 cl.) di Hoegaarden

Se settimana prossima qualcuno vuole venire a vedere la Champions, la birra c'è.

Ah, la frase del titolo l'ha pronunciata la Rumi quando ho aperto il bagagliaio.

20.3.06

Hong Kong colpo su colpo


Knock Off (HK/USA, 1998)
di
Tsui Hark
con
Jean-Claude Van Damme, Rob Schneider, Lela Rochon, Paul Sorvino, Carman Lee

Nello scorso decennio Jean-Claude Van Damme si è impegnato nel portare a Hollywood alcuni fra i più importanti registi del cinema d'azione di Hong Kong. Pochi anni dopo aver partecipato all'esordio americano di John Woo con Hard Target, recita da protagonista in Maximum Risk di Ringo Lam e Double Team di Tsui Hark. Il rapporto con questi ultimi due diventa incredibilmente solido, al punto che Van Damme replicherà un anno dopo con Hark e girerà addirittura altri due film con Lam.

I film dello sbarco in Occidente di questi tre registi hanno un forte punto in comune: pur mantenendo tutti in maniera molto forte l'impronta dell'autore, sono in tutto e per tutto prodotti occidentali. Hong Kong colpo su colpo, secondo frutto della coppia Van Damme/Hark, invece, è una pellicola estremamente "hongkonghiana". E non solo per l'ambientazione, una Hong Kong di fine millennio, prossima alla liberazione dal dominio britannico.

C'è molto Oriente nel cast di attori, nei toni a metà fra il melodrammatico e il farsesco, nell'estetica a basso budget e nelle coreografie delle scene d'azione. Tsui Hark mette ancora una volta in scena il suo gusto per l'interno degli oggetti, spinge la macchina da presa nelle canne delle pistole e dentro i macchinari, rendendo anche la semplice pressione di un bottone un evento roboante.

Soprattutto sul piano estetico, però, la pellicola mostra tutti gli anni che si porta sulle spalle e riesce a mantenere una certa dignità solo grazie al suo non prendersi praticamente mai sul serio. Resta comunque un film minore, anche se può valere la pena di recuperarlo per gustarsi le ottime sequenze d'azione, dinamiche e ricche di fantasia nonostante le movenze imbolsite di Van Damme, ben lontano dalle evoluzioni di un Jackie Chan o un Jet Li.

19.3.06

Birth - Io sono Sean


Birth (USA, 2004)
di
Jonathan Glazer
con
Nicole Kidman, Cameron Bright, Danny Huston, Lauren Bacall, Anne Heche, Peter Stormare

Quattro anni dopo l'apprezzato Sexy Beast, il videoclipparo Jonathan Glazer torna alla regia cinematografica con questo Birth, intrigante storia di ritorni dall'aldilà e conseguenti drammi esistenziali. Purtroppo, se il soggetto è senza dubbio affascinante, la sceneggiatura traballa parecchio, regalando più di una situazione oltre il limite del ridicolo e facendo molta fatica nel dare reale peso drammatico alle vicende.

A tenere in piedi la vicenda ci pensano la regia di Glazer - davvero bravo nel dipingere immagini estremamente evocative - e le splendide interpretazioni di Nicole Kidman e del piccolo Cameron Bright. Il film, però, è davvero troppo freddo e, sebbene si tratti probabilmente di una scelta consapevole, il risultato è che la storia fatica a decollare.

Se a questo aggiungiamo una risoluzione degli eventi davvero impacciata, un colpo di scena finale telefonato fin dai primi minuti della pellicola e un generale senso di incompiuto, il risultato finisce per deludere. Birth, insomma, è soprattutto un'occasione persa.

17.3.06

Il lato oscuro dell'anima


The Nightrunners (USA, 1983)
di Joe R. Lansdale


Il lato oscuro dell'anima risale al lontano 1987 ed è infatti appena il secondo romanzo di Joe R. Lansdale. Come in Atto d'amore, anche questa volta Lansdale sceglie la via del thriller. In questo caso, però, abbandona le atmosfere da poliziesco e sceglie di affrontare un viaggio nell'orrore puro e convulso, raccontando le vicende di una coppia perseguitata da una banda di teppisti un po' sopra le righe.

Gli anni che il romanzo si porta sulle spalle sono purtroppo evidenti, soprattutto in una prosa per certi versi banale, infarcita di metafore grossolane e lontana dallo stile asciutto e pulito cui i fan dello scrittore texano sono abituati. A tenere in piedi il libro, però, ci pensa lo strabiliante talento di narratore che caratterizza ogni opera di Lansdale e che colpisce nel segno anche questa volta.

Il lato oscuro dell'anima attanaglia il lettore, lo prende per il collo e lo trascina in un viaggio agghiacciante. Come sempre, se ci si lascia rapire, diventa poi impossibile sfuggire alla lettura, appassionante al punto da farsi affannosa. E alla fine, al di là di tutte le critiche che è possibile fare a mente fredda, se un libro ti prende e non ti molla fino alla fine, c'è davvero da lamentarsi?

15.3.06

Wrong Turn


Wrong Turn (USA/Germania, 2003)
di Rob Schmidt
con Desmond Harrington, Eliza Dushku, Emmanuelle Chriqui, Jeremy Sisto


Ottanta minuti abbondanti di convulso panico, in cui il solito gruppetto di giovani sfortunati si trova a scappare da una morte senza volto e senza nome, ma soprattutto senza senso. Wrong Turn è la violenza estrema, inspiegabile, ma soprattutto non spiegata e, forse, proprio per questo ancora più spaventosa.

Schmidt è molto bravo nel condurre un cast ristretto e monocorde su binari consolidati ed efficaci. Gioca bene le sue carte e tiene sempre alta la tensione, in una fuga senza apparente fine o salvezza. Non c'è approfondimento psicologico, non c'è indagine sulle tristi origini dell'orrore, c'è solo da correre come disperati.

Un film semplice negli ingredienti ed estremamente efficace. Non pretende di essere niente altro che puro intrattenimento e si concede solo una lieve deriva metacinematografica talmente esplicita da far quasi tenerezza. Peccato per una piccola incongruenza nello script, utile per dare maggior peso drammatico ai minuti finali, ma davvero evidente nella sua grossolaneria.

In ogni caso, un "teen horror" più che discreto.


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14.3.06

BREAKING NEWS!!!

Dopo 72 ore di silenzio, è finalmente giunta della cacca, oltretutto di buona qualità.

Festeggiamo il ritorno al normale corso degli eventi digestivi.

Buonanotte!

13.3.06

Che ne sarà di noi


"VAFFANCULO CAZZO PUTTANA TROIA MERDA PERCHÉ DEVI CAPIRE MI DEVI ASCOLTARE ASCOLTAMI CAZZO VAFFANCULO PUTTANA TROIA MERDA PERCHÉ CAZZO VAFFANCULO CAZZO PUTTANA TROIA"

Che ne sarà di noi (Italia, 2004)
di
Giovanni Veronesi
con
Silvio Muccino, Giuseppe Sanfelice, Elio Germano, Violante Placido

Il trio di stronzi che ne L'ultimo bacio voleva fuggire ha finalmente l'occasione di fuggire. E noi abbiamo l'occasione di scoprire quali fantastiche persone essi siano: un cretino completo a cui piace riempirsi la bocca di cazzate "importanti", uno stronzetto presuntuoso che alla fine raggiungerà la catarsi mistica e un povero sfigato che ha bisogno di crescere e sembra il figlio illegittimo di Massimo Conti de I ragazzi della terza C.

In realtà non è proprio lo stesso trio di personaggi, ma spiritualmente ci andiamo molto vicino, così come vicino è il tipo di film: un racconto urlato, biascicato, impacciato, delle emozioni e dei turbamenti "veri" dell'italiano medio. Anzi, in questo caso, del ragazzo italiano medio. Rispetto alle pellicole di Gabriele Muccino, comunque, c'è un'altra grossa differenza, ed è da far cadere le palle. Il dilettantismo di Veronesi - e dei suoi collaboratori, immagino - è ammorbante, con una messa in scena a dir poco raffazzonata e una cronica incapacità di fare con la macchina da presa qualsiasi cosa che non sia la svolazzata poetica verso l'orizzonte o il movimento circolare su un monologo di Muccino.

Non Gabriele, però, ma Silvio, co-autore della sceneggiatura, che sembra essere rimasto quello di sette anni fa: in bocca ai personaggi di Che ne sarà di noi mette le stesse parole di Come te nessuno mai, ma i cinque anni di differenza nell'età di chi le pronuncia fanno un effetto un po' diverso. Ma fosse solo quello si sopporterebbe anche, se non altro perché la sceneggiatura - pur banale e stereotipatissima - è comunque scorrevole e a tratti divertente. Il problema vero è la mania di protagonismo del Muccino, che si mette al centro dell'azione per tutto il film, ingombrando la scena ogni cinque minuti con un fantastico monologo in cui urla solo banalità e scemenze a raffica.

E non bastasse tutto questo, c'è anche la voglia di fare il film d'autore, di non limitarsi alla simpatica commedia, ma di buttarci dentro lo sbroffo di poesia. E allora vai con un motivetto azzeccato come tema musicale, da tirare fuori ogni tanto a caso per smuovere il sentimento. E vai con la voce interiore dei protagonisti, con tanto di pausa drammatica a metà di una frase quando uno di loro - Muccino, of course - recita il titolo del film. E vai di inutile, insignificante sciacquetta che segue a margine gli eventi, ammorbandoci con le sue considerazioni, ancora, poetiche e filosofiche.

Non orrendo, solo disarmante.

La Copa de la Vida (Frogé)


Qualche tempo fa in Future abbiamo disputato un mega torneo interredazionale di Pro Evolution Soccer 5. Doveva esserci anche la coppa di lega, ma il gioco non l'aveva permesso. Alla fine abbiamo deciso di farla comunque, creandola a parte e utilizzando i piazzamenti in campionato per compilare il tabellone. Alcuni hanno deciso di cambiare squadra (Il Toso è passato dal Liverpool alla Juventus, Vètova dal Liverpool al Milan e Ualone dal Real Madrid all'Inter), mentre io ho scelto di continuare a usare la Fiorentina. Si trattava della coppa legata al campionato in cui mi ero messo polemicamente alla guida di quella squadra e, visto che ormai mi ci ero affezionato, non ho voluto cambiare.

In avvio di campionato avevo detto di voler puntare proprio alla coppa, perché sapevo che con la Fiorentina mi sarebbe stato impossibile vincere un torneo a classifica. Diverso, invece, sarebbe stato con l'eliminazione diretta, dato che comunque sulla singola partita può succedere di tutto e che può sempre capitare un tabellone fortunato. In realtà, il mio tabellone non è stato proprio da gridare al miracolo, visto che mi sono trovato ad affrontare al primo turno chi, fra gli ultimi, mi aveva in assoluto messo più in difficoltà (Alepolli), al secondo uno degli unici due con cui in campionato non ho fatto punti (Ricky) e al terzo quello che più di tutti mi ha messo sotto sul piano del gioco (SS). Eppure, nonostante tutto, ho avuto una chance di andare fino in fondo, ma non l'ho sfruttata.

Il primo turno ha visto in gioco otto squadre, con i primi quattro classificati del campionato che ci aspettavano ai quarti di finale. La Juventus del Toso ha avuto vita abbastanza facile contro l'Inter di Ualone: vittoria per 0 a 2 in trasferta e pareggio 1 a 1 in casa. Ma è stato l'unico confronto non giocato sul filo di lana. La Juventus di Zave, opposta al Middlesbrough di Grùspola, è stata l'unica squadra in grado di ribaltare il pronostico (ma del resto era la testa di serie numero 9, opposta alla numero 8), vincendo in casa per 1 a 0 e andando a pareggiare 1 a 1 in trasferta, con due match estremamente equilibrati. La Roma del Duspa ha trovato una vittoria quasi miracolosa in trasferta contro il Milan di Vètova, segnando all'ultimo minuto del supplementare il gol dell'1 a 2. Al ritorno è finita 1 a 1, ma Vètova ha sprecato davvero tante occasioni per portare il match ai supplementari. Infine, il mio doppio confronto con Alepolli: un'andata terrificante a San Siro, che mi ha visto andare sotto per 2 a 0 nel primo tempo e riuscire a pareggiare solo allo scadere della ripresa, e un ritorno vinto per 3 a 0, ma molto più equilibrato di quanto il risultato dica, soprattutto perché sull'1 a 0 Alepolli ha sbagliato un rigore e il terzo gol è arrivato solo nel finale.

Ai quarti di finale c'è stata un'ecatombe di teste di serie. Il Chelsea di alegalli, dopo aver vinto in casa per 1 a 0, è stato distrutto al Delle Alpi dalla Juve del Toso, che gli ha rifilato ben quattro reti senza incassarne una. Partita comunque sfortunatissima per gli inglesi, che hanno mandato la palla sul fondo almeno cinque volte a porta vuota. Destino ancor più beffardo per la Juventus di Patriarca, scudettata in campionato: fermata due volte sullo 0 a 0 dalla Juventus di Zave, è stata eliminata per 2 a 3 ai calci di rigore. Unica testa di serie a uscire indenne dai quarti di finale, il Milan di SS (secondo in campionato), che contro la Roma del Duspa ha vinto per 1 a 0 all'Olimpico e ottenuto l'1 a 1 in casa, rimontando dall'iniziale svantaggio. Io ho incontrato la Juventus di Ricky, contro cui in campionato avevo racimolato due sconfitte per 2 a 1. All'andata ho sostanzialmente dominato, ma sono andato sotto per un autogol di Kroldrup e ho incassato subito dopo il raddoppio a firma Ibrahimovic. La partita, come al solito, è finita 2 a 1, grazie a una gran botta di Brocchi nel finale. Al ritorno, però, ho spezzato la maledizione, vincendo 1 a 0 su preciso diagonale di Jimenez.

In semifinale si è spenta la favola della Juventus di Zave, che contro la Juventus del Toso non è riuscita a ribaltare il terzo pronostico di fila. All'andata, in trasferta, ha chiuso su un ottimo 1 a 1, ma al ritorno si è trovata a inseguire, inutilmente, per novanta minuti: sotto per 1 a 0, pareggio, sotto per 2 a 1, pareggio, sotto per 3 a 2, tutti avanti in preda alla disperazione, 4 a 2 subìto in contropiede. Io, all'andata, ho giocato una partita splendida contro il Milan di SS, squadra che in campionato ho sofferto in maniera pazzesca. Nel primo tempo non gli ho quasi fatto vedere palla, sono andato in vantaggio con un gollonzo, ma ho legittimato con il dominio sul campo e le tante occasioni costruite. Purtroppo, ho sprecato tantissimo, mandando fuori, a porta vuota, almeno tre occasioni (maledetto Bojinov... ). Nella ripresa i ragazzi sono un po' calati, ma stavano tenendo. Purtroppo, all'ultimo minuto di recupero, Shevchenko ha tirato una bomba sulla traversa, il pallone è rimbalzato sulla linea e Di Loreto è arrivato a valanga, segnando un autogol. Il secondo subìto nel torneo. Al ritorno, in trasferta, serviva l'impresa, ma la partita è iniziata in maniera tragica: quarto minuto, un mio giocatore passa la palla a Gilardino sulla nostra trequarti (...), io vengo colto dal nervosismo ed entro da dietro. Rosso per Ujfalusi e disperazione. A quel punto, ovviamente, SS ha fatto valere la supremazia tecnica e fisica del Milan, schiacciandomi nella mia metà campo, segnando il gol vittoria e sprecando almeno un paio di altre occasioni. Io sono riuscito ad andare in avanti solo un paio di volte in contropiede, tirando peraltro in pieno recupero un'occasione clamorosa in faccia a Dida. Mani nei capelli per Pazzini, fine del torneo.

In finale SS ha avuto la meglio sul Toso in una partita molto equilibrata e vinta di misura, un 1 a 0 che comunque rispecchia abbastanza quanto visto sul campo. Capocannoniere del torneo è stato l'Ibrahimovic del Toso, con cinque reti, mentre miglior assistman è stato Camoranesi, sempre per il toso, con tre passaggi vincenti. Dei miei, migliori marcatori Pazzini e Fiore (due gol a testa) e tanti giocatori con un assist.

In conclusione, posso dire di aver rosicchiato mezza scrivania. Non tanto per l'esito finale del doppio confronto con SS, che di suo ci può stare, ma per la partita d'andata buttata via sprecando tutte quelle facili occasioni e segnando quel ridicolo autogol e per non aver praticamente giocato il ritorno. Sarebbe stato meglio mantenere la calma, rischiare magari anche di subire un gol, ma rimanere in undici e giocarmela fino alla fine. Tanto più che in finale, col Toso, me la sarei perlomeno giocata alla pari. Peccato.

12.3.06

Below


Below (USA, 2002)
di
David Twohy
con
Matthew Davis, Bruce Greenwood, Olivia Williams, Holt McCallany

Sei anni dopo l'esordio cinematografico con l'intrigante The Arrival, due anni dopo la conferma giunta con l'ottimo Pitch Black, David Twohy continua a portare avanti la sua idea di cinema con questo bel thriller di profondità. Un cinema di intrattenimento senza mezzi termini, il suo, realizzato con arte e passione, partendo sempre da soggetti interessanti, curando minuziosamente le sceneggiature e divertendosi a giocare coi generi.

Questa volta Twohy miscela il classico film di sommergibili e le suggestioni di un'altrettanto classica ghost story. Non mancano tutti i momenti tipici dei due generi, ma in più punti si nota la voglia di rielaborare con un taglio originale e innovativo gli stereotipi cui siamo abituati. Significativa, in questo, la splendida e agghiacciante sequenza della bomba che rotola lungo lo scafo del sommergibile.

La storia oscilla continuamente in bilico fra realtà e sovrannaturale, insinuando dubbi nello spettatore e non svelandosi del tutto fino quasi alla fine. Il meccanismo funziona alla perfezione e la suspence è assicurata per tutto il film. In particolare, è impressionante la padronanza registica ostentata da Twohy, che invade gli angusti corridoi del sommergibile con angoscianti piani sequenza, piazza sempre la macchina da presa dove meglio non potrebbe stare e dimostra una comprensione dei meccanismi della suspence quasi imbarazzante.

Convince forse un po' meno, una volta tanto, la sceneggiatura, che, soprattutto negli ultimi minuti, sembra fare un po' fatica a tirare le fila del discorso. Un difetto comunque veniale, in un film, il terzo consecutivo, decisamente riuscito.

Resurrezione



Mi sento di sconsigliarvi vivamente l'influenza che gira in questi giorni. O che gira a Milano, perlomeno.

Martedì sera: un po' di nausea, devo aver digerito male, vabbé, andiamo a dormire.

Mercoledì mattina: ho dormito male, mi son svegliato spesso, mi sento strano, spossato, che cazzo è? Vabbé, proviamo la febbre prima di andare al lavoro, dai, per scrupolo... 37.5... ah, ok... ah, aspetta aspetta... toh, pure una botta di diarrea... vabbé, stiamo a casa. Ora di pranzo: 38.5, durerà tutto il giorno, nonché la notte. Con i classici sintomi, spossatezza, dolori alla schiena, rincoglionimento totale... almeno niente più cacca brutta.

Giovedì mattina: 37.5, la febbre è in netto calo, in compenso la cacca brutta torna alla riscossa. In pratica, per dirla con parole semplici, piscio dal culo per tutto il giorno. Proviamo la mossa Dissenten.

Venerdì: la febbre è nettamente passata, 36.9 e calo continuo per tutta la giornata. In compenso continuo ad espellere litri di materiale liquido dalla parte sbagliata. Con le ovvie conseguenze del caso, dalla estrema debolezza fisica, alla necessità di seguire una dieta modello Ospizio del Sacro Cuore di Betlemme, ai dolori di pancia, al sudore freddo ogni volta che arriva una scorreggia e temi si porti dietro il regalino.

Sabato: la diarrea sembra passata (ma più che altro non esce nulla per tutto il giorno, ultima esperienza registrata verso le due di notte), anche se permane una sensazione di disagio - accompagnata da strani rumori - all'altezza dell'intestino. Si mantiene un profilo alimentare estremamente basso, per evitare pericolose ricadute nel tentativo di fare il grosso. La febbre, comunque, non ha più bussato alla porta.

Domenica: sto bene, credo. Niente più dolori, a parte un pochino la schiena. Lo stomaco sembra a posto, c'è un vago sentore di malessere nelle zone basse, ma magari è più un fatto di "convalescenza". Non cago dalla notte fra venerdì e sabato, però scorreggio molto. Lo prendiamo come un segnale positivo.

In conclusione, ribadisco quanto detto in apertura: mi sento di sconsigliarvi vivamente l'influenza che gira in questi giorni. O che gira a Milano, perlomeno.

5.3.06

Syriana


Syriana (USA, 2005)
di
Stephen Gaghan
con
George Clooney, Matt Damon, Jeffrey Wright, Alexander Siddig, Christopher Plummer, Chris Cooper, Amanda Peet

Ennesima produzione della famigerata cricca cui fa capo il duo Clooney/Soderbergh, Syriana è un film politico e di denuncia, per certi versi simile a The Constant Gardener, visto all'ultimo Festival di Venezia. Rispetto alla pellicola di Meirelles, però, quella di Stephen Gaghan sceglie un approccio meno macchiettistico e patinato, con uno stile visivo e delle scelte di narrazione maggiormente ancorate alla realtà. Non ci sono buoni e cattivi, ma solo una lunga serie di macchie grigie, che si agitano su uno sfondo rosso sangue.

Gaghan porta avanti un racconto estremamente stratificato, con almeno tre storie parallele e tante piccole ulteriori linee narrative che vanno a intrecciarsi. In comune, oltre al tema, c'è la moralità dubbia dei personaggi. Anche i ruoli interpretati da George Clooney e Matt Damon, che sulla carta dovrebbero essere i personaggi positivi cui affezionarsi, finiscono offuscati dalle loro scelte di vita.

Questa neutralità, questo non voler cedere ai classici compromessi del cinema popolare, rende senza dubbio Syriana un film atipico e riuscito nei suoi intenti di denuncia. A perderne, forse, è il potenziale drammatico, enorme per quelli che sono gli eventi e i temi, ma allo stesso tempo estremamente debole per l'impossibilità di trovare un punto d'immedesimazione e per la complessità del racconto.

La narrazione è estremamente lenta, rarefatta e le tante storie si intersecano in maniera frammentaria, rendendo fra l'altro non facile seguirne il filo conduttore. L'ottima sceneggiatura e la regia essenziale svolgono però un lavoro eccellente e alla fine il quadro completo risulta chiaro e di semplice interpretazione. Notevoli anche tutti gli attori, dall'affascinante Amanda Peet all'intenso Matt Damon, dal simpatico dottor Bashir a un Clooney mai così dimesso e per nulla gigione, capace perfino di limitare a una sola apparizione iniziale il suo solito tic "testa basculante inclinata di lato".

In tutto questo, però, manca come detto quasi completamente il coinvolgimento emotivo, il melodramma, il "cinema" vero e proprio. Sorge quindi spontaneo il dubbio: pur con tutti i suoi meriti in ottica divulgativa, è Syriana buon cinema? Sarebbe stato giusto concedere qualcosa sul piano narrativo per ottenere un film magari meno incisivo ma dal maggiore impatto drammatico?

Usenet Amarcord #009


Mensola, 7 ottobre 2005

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il nervoso, quello vero.

ore 19.45 scendo per andare in palestra.

avevo accomodato portafoglio + chiavi della macchina su una sedia in salone (per chi è stato qui a bulciago, quella prima della cucina)
non ci sono.

boh, avrò lasciato tutto in macchina, penso.
scendo, la macchina è chiusa.

porco

risalgo, faccio il giro della casa, sopra e sotto.
niente.

ok, riepilogo mentalmente il contenuto del portafoglio:
- 500 € e spiccioli abbondanti, che dovevo rinnovare l'abbonamento in palestra e piscina (http://www.wetlife.net/ fico)
- un'altra settantina di € in marche da bollo
- patente
- carta d'identità
- codice fiscale
- tesserino dell'ordine
- tesserino associazione ex alpini ricordo del mio vecchio, valore affettivo inestimabile
- un paio di cedolini di raccomandate spedite stamante
- bancomat
- postepay
- tessera magnetica della palestra e piscina di cui sopra

la convinzione è che qualcuno sia salito e senza farsi sgamare mi abbia sottratto il tutto.
già successe nella casa vecchia, rubarono il mio portafoglio e un orologio a mio pa', quindi ci può stare

chiamo mamma, la quale conferma che il portafoglio era sulla sedia.
lei non l'ha toccato.

il fegato.
cioè, alla fine i soldi vabbè ti spiace e ti girano assai, ma son fungibili
ma la sbatta per tutte le carte e le patenti e i tesserini e tutto quanto si può solo definire ingestibile

sto giro non si gestisce
non si può, proprio fuori portata.

e le chiavi della macchina.
qualche figlio di puttana ha le chiavi della mia macchina.
già vaneggio di non andare mai più a dormire, perchè lo stronzo ritornerà a finire il suo lavoro.

ritornerà, si.
e io sarò li ad aspettarlo, con in mano il fucile più grosso della brianza (lo sparanegri di cui si legge in rumble tumble di lansdale), e alle mie spalle una squadra di picchiatori albanesi che conosco per taluni motivi e saprei come contattare alla bisogna (e non sto scherzando)
scendo subito a togliere il telecomando del cancello dalla macchina, e penso veramente di organizzare la vendetta.

la follia mi abbandona per un momento: il tutto manca di logica.
razionalizzo

in zona portafoglio c'erano delle cose di argento di mia mamma.
sul tavolino due banconote da 50, che sono ancora lì.
sulla mensola di fianco alla tele una trentina fra giochi e dvd.
console e cuffie.

non può essere.

nel pomeriggio è passata mia sorella.
col bimbo, di tre anni e rotti.
l'altra bimbetta è stata qui tutto il giorno, lei ha caricato l'altro all'asilo e si è fermata qui a prenderla, è appena andata via.

la chiamo e non risponde

porco

riprovo dopo 10 minuti
risponde
sta facendo il bagno alle creature

- uè nat, scusa, hai per caso toccato il mio portafoglio?
- no, figurati, perchè?
- (perchè il cazzo) perchè non lo trovo

......................

pausa

senza dirmi nulla, ha già capito

"davide, hai preso le chaivi dello zio?"
"si"
"anche il portafoglio"
"si"
"e dove li hai messi"
"li ho messi nella macchinina"

razionalizzo

ora

lo stronzetto ha una macchinetta tipo pedali con il sedile che si alza e rivela un vano oggetti, solo senza pedali, alimentata a spinta.

è qui dai suoi nonni da sempre.

e per sempre, intendo che non un solo fottuto minuto di un fottuto giorno mandato in terra da dio, da quando è nelle sue disponibilità, quella macchinetta non è stata qui.

quella macchinetta è mia, perdio.
è un elemento di arredamento.
non so quante volte ci ho inciampato di notte.

stasera, quel piccolo rottinculo ha voluto portarla a casa.

il bastardo ha messo il portafoglio e le chiavi nel vano, coprendoli con una qualche cazzata delle sue.

non l'ha mai portata a casa sua.

MAI

stasera ha piantato un circo che nemmeno il medrano la notte di capodanno, e alla fine mamma e nonna hanno ceduto.

il sacchetto di merda se l'è portata a casa.

a casa sua, a monza, senza fiatare, il negro.

facendo lo gnorri.

ma lui sapeva di avermi fottuto.

faccia di cazzo.

ho passato tre quarti d'ora a consumarmi il fegato.

se mi prendono i 5 minuti gli faccio causa per danni morali, al nano.
nono, non ai genitori, a lui, cazzo.

gli pignoro un 5° della paghetta.

in collegio, perdio.

anzi, accademia militare, lo stronzo.

ma no, che dico.
giustizia medievale, è opportuna in tali casi

ora scendo e gli faccio sparire un po' della cazzate che ha in giro.

ma perchè solo un po'?

tutto, amico, ti butto via t u t t o.

la soddisfazione maggiore sarà buttari per strada le cose che ti ho regalato io.

la moto di valentino
il cazzo di arepoporto da 26 euro.
la fattoria degli animali. oh, si, quella ti piace vero?

e che mi dici del libro di pinocchio.
del MIO libro di pinocchio.

Il thread originale su google gruppi.

4.3.06

Sinbad - La leggenda dei sette mari


Sinbad - Legend of the Seven Seas (USA, 2003)
di Patrick Gilmore e Tim Johnson
con le voci di Brad Pitt, Catherine Zeta-Jones, Michelle Pfeiffer, Joseph Fiennes


Dopo il pomposo, pretenzioso, impacciato, in sostanza deludente, Il principe d'Egitto, Dreamworks ha corretto il tiro e ha scelto di affrontare il mondo dei film d'animazione tradizionale in maniera leggermente diversa. È così arrivato Eldorado, che riusciva a coniugare umorismo, taglio adulto, avventura e senso di meraviglia in maniera veramente ottima. Sinbad, ultimo, probabilmente in tutti i sensi, esperimento Dreamworks nel settore, è diretta evoluzione di quella scelta.

Miscuglio per certi versi disneyano di svariate mitologie e numerosi personaggi letterari, il Sinbad di Patrick Gilmore e Tim Johnson ha poco a che vedere con quello di Le mille e una notte, ma non per questo va condannato. L'ottima sceneggiatura rende divertente e appassionante una storia fatta di amicizia, amore e senso dell'onore, regala dialoghi frizzanti e assicura l'inevitabile lieto fine. Dal punto di vista tecnico, poi, il film è ovviamente un piacere per gli occhi, anche per un utilizzo non troppo invadente della solita computer grafica e per una regia davvero ispirata. Perfette, infine, le voci scelte per il doppiaggio originale, su cui svetta soprattutto una seducentissima Michelle Pfeiffer.

Sinbad - La leggenda dei sette mari è insomma un ottimo film d'animazione, l'ennesimo esempio di come la bistrattata scuola americana riesca a dire ancora qualcosa, nonostante l'insopportabile propaganda filonipponica portata avanti da schiere di appassionati. Delle quali, peraltro, ho fatto a suo tempo parte pure io.

3.3.06

Two Sisters


Janghwa, Hongryeon (Corea del sud, 2003)
di Ji-Woon Kim
con Su-Jeong Lim, Geun-Yeong Mun, Jung-Ah Yum, Kap-Su Kim

Ji-Woon Kim si è fatto notare, perlomeno dal sottoscritto, all'ultimo Festival di Cannes con A Bittersweet Life, storia di un killer che si innamora della sua preda e, ovviamente, finisce per prenderla in quel posto. Un film che riusciva a coniugare l'estrema cura formale e l'adorabile gusto per il melodramma tipici del cinema di genere coreano con una capacità di sintesi e una compattezza al contrario rare in quella cinematografia. Inevitabile quindi porsi con interesse e curiosità di fronte alla precedente pellicola di Kim, soprattutto perché apparentemente agli antipodi per tematiche e stile.

Two Sisters è allo stesso tempo un horror, un intenso racconto di drammi familiari e un esercizio di stile registico. Il racconto parte dalla fine e mette in scena svariati episodi in maniera schizofrenica, alternando passato, presente e delirio in un mix che solo nel finale, di fronte all'ultima inquadratura, è possibile interpretare nel modo corretto. Il risultato è intrigante e splendidamente realizzato, ma finisce per indebolire quello che invece è il tema portante del racconto. Quasi impossibile affezionarsi ai personaggi, vivere le loro tragedie e commuoversi per una storia che sulla carta è toccante, ma a conti fatti risulta fredda e sfuggevole. Lo spettatore è troppo distratto dalla messa scena e impegnato a interpretare le immagini, per riuscire a farsi coinvolgere davvero. Forse, con una seconda visione, le cose possono andare diversamente.

Estremamente riuscito, invece, il piano di lettura forse meno importante, anche se "scorrettamente" sfruttato in Italia per commercializzare il film sull'onda del recente successo di svariati horror orientali. I fantasmi ci sono e fanno le loro brave apparizioni, seguendo l'iconografia sdoganata in occidente da The Ring e riuscendo ad essere molto efficaci. Poche apparizioni, ma significative, che fanno correre più di un brivido lungo la schiena (soprattutto se stai guardando il film da solo in casa alle due di notte, col gatto che salta all'improvviso sul divano).

1.3.06

The Mask 2


Son of the Mask (USA, 2005)
di
Lawrence Guterman
con
Jamie Kennedy, Alan Cumming, Bob Hoskins

Il primo The Mask era una sciocchezzuola coi suoi bravi meriti. Rappresentò assieme ad Ace Ventura il definitivo lancio mondiale per la stella comica di Jim Carrey (ma forse alcuni non lo considerano un merito) e, non dimentichiamocelo, segnò l'esordio sul grande schermo di Cameron Diaz. Inoltre mostrava effetti speciali ottimamente realizzati e, per l'epoca, anche abbastanza innovativi. Al di là di questo, comunque, era un discreto adattamento in ottica mainstream dello splendido fumetto originale.

Il film era infatti ispirato direttamente all'opera di John Arcudi e Doug Mahnke, che nel 1989 avevano preso in mano un personaggio creato sette anni prima da Mike Richardson e l'avevano rivoltato come un calzino, dando vita a un personaggio fantastico e molto sottovalutato. Rispetto alla versione fumettistica, sicuramente la pellicola di Chuck Russel perdeva la carica di smodata ultraviolenza, ma conservava almeno in parte quello splendido humor nero, la spettacolare idea di fondo e le tante trovate. Questo perlomeno in un primo tempo divertentissimo, cui seguiva poi una svolta più classica, con il classico scontro fra buoni e cattivi e il finalino lieto.

Tutti i lati positivi di The Mask, comunque, svaniscono in questo orrendo seguito, piatto e insignificante sotto qualsiasi punto di vista. Nel film di Lawrence Guterman, molto semplicemente, non c'è nulla. L'unica idea simpatica, il ripetuto omaggiare intere sequenze di classici cartoni animati Warner Bros, è realizzata in maniera piatta e avvilente. Un tonfo indifendibile, un catorcio di film.

 
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