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20.2.12

David Jaffe a D.I.C.E. 2012


David Jaffe, quando era gggiovane, ci credeva alle storie nei videogiochi. Da bravo appassionatissimo di cinema, puntava fortissimo su questo aspetto. Si sparava le pose da quello che coi vari Twisted Metal voleva raccontare le cose profonde, per dire. E poi ha creato il primo God of War, che aveva almeno un gran bel momento di narrazione portata avanti tramite il gameplay e che ha generato una trilogia in cui la storia ha il suo peso. Poi, però, qualcosa si è rotto. In realtà le prime crepe si erano manifestate già durante la lavorazione della prima avventura di Kratos (il che è paradossale, considerando quanto fosse riuscita quella sequenza in cui si prova inutilmente a difendere la sua famiglia, ma è in realtà dovuto anche a questioni "esterne"), ma la vera rinuncia alla faccenda è probabilmente anche figlia del fallimento di Heartland, il chiacchierato FPS per PSP su cui ha lavorato a lungo e che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere un gioco estremamente basato sulla potenza narrativa e sulla capacità di provocare emozioni forti. Da lì in poi, il cambio di rotta è evidente, sia nelle sue esternazioni pubbliche, tutte all'insegna del "fanculo la storia, dobbiamo far divertire la gente con il gameplay", sia nel lavoro svolto con il suo team Eat Sleep Play (Calling All Cars e Twisted Metal), da cui si è fra l'altro recentemente separato.

A Las Vegas, Jaffe ci è andato con un intervento intitolato "Chocolate and tuna fish". Un paio di settimane prima dell'evento, ha partecipato a un episodio del podcast Weekend Confirmed, chiaramente per parlare del nuovo Twisted Metal. Nel corso dell'episodio ha accennato anche all'intervento che stava preparando per D.I.C.E. e ha ammesso che la chiacchierata nel podcast gli ha fatto capire che il suo punto di vista, del quale comunque rimane convinto, può avere delle falle, perlomeno nell'ottica secondo cui non è detto che ogni singolo videogiocatore al mondo sia interessato solo e unicamente al divertirsi con le meccaniche di gioco e, anzi, ci sono probabilmente molti che godono anche del fascino della storia che viene loro raccontata e fatta vivere. Dopodiché, ecco qui il suo intervento a Las Vegas, in ventidue minuti di filmato, piuttosto interessante e divertente come al solito. Di seguito, il mio riassuntino.


Secondo David Jaffe, incistarsi sulla voglia di raccontare storie attraverso il videogioco è una cattiva idea, uno spreco di tempo, soldi e risorse, oltre che un qualcosa che danneggia il medium. E, attenzione, il problema non sta nelle storie che vengono raccontate dai videogiocatori attraverso il gameplay e le loro azioni: ci sono innumerevoli ottimi esempi di quanto bene quell'ambito funzioni, e si vedono tanto in uno Skyrim quanto in un Angry Birds. Meccaniche così riuscite che il giocatore le sfrutta per creare una storia nella sua testa. E ne nascono storie fantastiche, che poi vediamo manifestarsi su internet attraverso racconti, o magari video su Youtube. Sono il cuore di questo medium, da proteggere e da amare. E (attenzione) non si tratta di voler tornare ai tempi dell'Atari 2600, dell'essenzialità e dei giochini dalle meccaniche pure e semplicissime. Secondo Jaffe le IP sono una gran cosa e, fra l'altro, il settore dei videogiochi è il più florido al mondo nella creazione di IP nuove, interessanti, con bei personaggi e contesti per i giocatori, racconti e sequenze narrative di livello, che funzionano benissimo se fanno da corollario e da protezione per ciò che più conta: il gameplay. Anzi, ragionare in termini di IP è fondamentale, per creare un marchio di successo, certo, ma anche perché si va a costruire qualcosa che fornisce al giocatore una connessione emotiva col gioco. A qualsiasi livello, dalla mega produzione al giochino per iPhone.

Il problema, secondo Jaffe, è costituito da quei giochi che nascono fin dall'inizio, fin dal "design document", col solo fine di raccontare una storia, di esprimere una filosofia, della narrazione. Si tratta di un deragliare, in maniera anche pesante, dal vero fulcro del videogioco. E a volte, magari per brevi tratti, succede anche in giochi che non nascono con quell'intenzione. Per esempio nell'avvio di Arkham City, che ti costringe a stare fermo, legato, potendo solo muovere lo sguardo, in un momento in cui di fatto non c'è gameplay, ma solo la necessità di raccontare una storia. Se ne può apprezzare la sensazione di potenza che la situazione ti offre nel momento in cui finalmente Batman si libera e ti senti investito dei suoi pugni nelle mani, ma rimane, secondo Jaffe, una soluzione scelta solo in nome del racconto e che indebolisce l'avvio di quello che comunque rimane un grandissimo videogioco che sa anche raccontare tramite il gameplay (e io concordo).

Qui non ci si diverte.

Molti ritengono Jaffe un pazzo e gli danno dell'idiota. C'è una quantità di gente assai "vocale", non si sa quanto grande in rapporto alla totalità dei videogiocatori, ma comunque appassionata, che ritiene i suoi dei deliri e che pensa che narrazione e videogioco si sposino alla perfezione. Per questo Jaffe ha intitolato il suo intervento "Chocolate and tuna fish", perché molti pensano che narrazione e videogioco si sposino alla perfezione, come il cioccolato e il burro d'arachidi. E invece secondo lui è come mettere assieme cioccolato e tonno. E si rende conto che non è mai bello fare la parte di quello che sostiene che no, sono solo giochini, ma lui ne è davvero convinto. E lo è diventato, convinto, visto che, come si diceva sopra, è entrato in questo settore proprio perché pensava di poter e voler fondere cinema e videogioco. 

Secondo Jaffe, una buona storia è una storia in cui puoi riconoscerti, rispecchiarti, e da cui puoi trarre qualcosa che poi andrà a influenzare la tua vita, più o meno consciamente. E questo può avvenire tanto in un Indiana Jones quanto in un Revolutionary Road, a prescindere dall'ambientazione e dal genere. Perché guardare un film, leggere un libro, significa in un certo senso mettere in pausa la propria vita e dedicarsi passivamente a qualcosa d'altro. Quando giochi a un videogioco, invece, non metti in pausa la tua vita, rimani al contrario attivo, compi delle scelte e delle azioni e il tuo cervello continua a funzionare nella stessa maniera. Forzare su questo il linguaggio della narrativa non funziona. A ulteriore supporto della sua idea, Jaffe porta a esempio Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg, regista di cui è un grande fan. Spielberg ha realizzato la scena iniziale senza usare dolly, gru, musiche, cercando di aderire a uno stile documentaristico, per coinvolgere lo spettatore e farlo sentire realmente su quella spiaggia. Ma mentre guardi un film, per quanto ci si possa avvicinare a quella sensazione, non ti senti comunque sulla spiaggia, perché stai guardando la storia da fuori, la vivi contestualizzata, ne sei al di sopra, ne trai qualcosa e "subisci" le scelte di regia e sceneggiatura. Trovandoti realmente su quella spiaggia, non penseresti alle vicende dei personaggi, ai contenuti, ti limiteresti a scappare e il tuo unico pensiero sarebbe di raggiungere un riparo e fuggire dal caos. Penseresti solo a sopravvivere. Un videogioco, se è coinvolgente e ti fa immedesimare, ti spinge a questo, a ragionare in quel modo, non a pensare alla storia o al messaggio.

Uomini in procinto di riflettere sulla natura umana.

Il primo gioco risale a qualcosa come quattro o cinquemila anni fa. Nel corso dei millenni, l'umanità ha inventato una marea di giochi, dal poker al bowling ai vari sport. Eppure nessuno, prima del videogioco, si è mai sognato di menarsela più di tanto con la narrazione e i significati profondi. Se cambiano una regola del football NFL, non è per raccontare qualcosa sulla natura umana, è per far funzionare meglio lo sport, renderlo più divertente e godibile come prodotto per gli appassionati. E quindi? Da dove esce questa fissazione con la narrativa videoludica? Secondo Jaffe, la deriva finale è avvenuta una ventina d'anni fa, con l'esplosione del CD-Rom, della grafica 3D, delle cutscene e dei dialoghi recitati da attori. Improvvisamente si poteva fare un lavoro di vera regia e ci si è lasciati sedurre dal linguaggio del cinema. Improvvisamente, solo perché i videogiochi assomigliavano sempre più ai film, si è cominciato a dare per scontato che li dovessero imitare e a perdersi per strada un sacco di elementi fondanti del medium.

Poi, certo, molti non sono d'accordo con Jaffe e puntano tantissimo nella direzione opposta, con tutte le solite chiacchiere che sappiamo: vogliono che i videogiochi siano qualcosa di più, che parlino di natura umana e di politica. Vogliono vedere il Quarto potere dei videogiochi. Le solite storie. Le solite stronzate, secondo Jaffe. Lui ha lavorato per diciassette anni con Sony e sa che si tratta di un'azienda che punta sull'innovare e crede realmente in buona parte di questi discorsi. Già nel 1995 Sony spingeva il videogioco come nuova forma d'arte. E negli anni ha pubblicato giochi come Parappa the Rapper, Heavy Rain, Ico, Shadow of the Colossus, Flow, Flower, Journey. Lo stesso Jaffe, che lavorava ai Santa Monica Studios, sa che per un certo periodo erano stati in ballo per la realizzazione di L.A. Noire e Six Days in Fallujah. E, intendiamoci, Jaffe ritiene alcuni di questi giochi bellissimi. "Non voglio certo fare la figura del cretino che sostiene che Ico sia un brutto gioco". Però Jaffe si definisce anche una persona stra aperta all'emotività della narrazione: è un piagnone, si fa commuovere da qualsiasi cosa, perfino da alcune pubblicità. Eppure i videogiochi più emozionanti non sono stati in grado di dargli emozioni forti come le migliori pubblicità (figuriamoci i migliori film). Insomma, la sostanza è che non ci crede.

La strada sbagliata?

Ma soprattutto, si chiede Jaffe, perché si sente tutto questo bisogno di raccontare tramite i videogiochi? Se ritieni di avere qualcosa da dire, una storia da raccontare, perché scegli di farlo attraverso un medium che è storicamente il meno adatto a parlare di filosofia, storia, narrativa? Scrivi un libro, dirigi un film, apriti un blog, entra in politica... non metterti a sviluppare un videogioco! È come se uno chef di livello mondiale, invece che in un ristorante da cinque stelle, preferisse andare a lavorare da McDonald's. Ma del resto lo stesso Jaffe, un tempo, la pensava così. Inoltre, il problema è che vede degli atteggiamenti che lo fanno proprio incazzare. Non sopporta quest'idea che i videogiochi, oggi, non siano abbastanza importanti, non siano "di più", e vivano un senso di inferiorità rispetto al cinema. I videogiochi sono importanti. E lo sono grazie al gameplay, al multiplayer di Call of Duty, al divertimento di Guitar Hero o di Angry Birds, non grazie alle storie che raccontano. "Dobbiamo rispettare quel che stiamo dando al mondo. Siamo importanti, facciamo cose importanti, diamo divertimento al mondo. E mi fa incazzare questo diffuso desiderio di essere altro, di essere di più". 

Allo stesso tempo, però, Jaffe non dice che non si debba inseguire quel che si ritiene giusto inseguire. Se ci si crede davvero, bisogna farlo. Però bisogna smettere di travisare il videogioco e di considerarlo cinema, la nuova frontiera della narrativa, perché facendolo, gli sviluppatori hanno finito per far atrofizzare i muscoli del gameplay. E questo deve essere chiaro anche per i publisher, i dirigenti. "Voi, che siete qua in platea, siete dei fresconi. Siete facilissimi da intortare, da convincere ad approvare un progetto raccontandovi che parla di natura umana, che sarà come Breaking Bad ma in videogioco, senza rendervi conto che state dando il via a produzioni senza senso. Imparate a masticare videogioco, sedetevi al tavolo con gli sviluppatori sapendo di cosa si discute e ritrovandovi in grado di farvi spiegare cosa e come i vostri interlocutori vogliano realizzare".

E come conclude Jaffe tutto il suo discorso? Citando una persona che secondo lui capisce davvero la natura del videogioco, Harvey Smith. Uno che ha lavorato su Deus Ex, che sa come si raccontano storie tramite il gameplay, ma che quando vuole solo raccontare una storia scrive un romanzo. Sta realizzando un gioco incentrato sul gameplay che genera narrazione ed è uno che comprende veramente la natura del medium. "Se lo capissimo altrettanto noi tutti, renderemmo i giocatori molto più felici".

E, a proposito di Steven Spielberg, oggi me ne vado a singhiozzare al cinema con War Horse. Ah, già che ci siamo, segnalo anche che oggi, in Italia, mi risulta uscire Warrior in DVD/Blu-ray ed eventuali altri mezzi strani di diffusione per l'home video. Non so, casomai qualcuno li usasse ancora..

2 commenti:

Interessante.
Secondo me il punto è che il videogioco non è buono a raccontare storie, ma a creare ambientazioni. Per questo tutti amano Half Life 2 o ICO o GTA4: il punto, in quei giochi, non è la trama in sé, o i dialoghi, ma l'ambientazione. Il videogioco è più simile alla musica per un musicista che non al cinema per uno spettatore.

Ferruccio, non sono d'accordo: il bello di Ico non è l'ambientazione, ma quello che succede in quell'ambientazione e come usi quell'ambiente per far succedere le cose.
Idem per HL2: mi dai le gravity gun e i ponti esplodibili, mami dai anche un buon motivo per andare a Nova Prospekt, altrimenti dopo un po' mi stufo anche di esplosioni.
Già GT4 soffre di più da questo punto di vista, mi dai una splendida città, ma tutto quello che mi chiedi di fare è andare da A a B e da B a A, con pochissimo coinvolgimento.

La cosa che Jaffe non tira fuori bene secondo me è che è difficile scrivere storie belle e coinvolgenti che poi possano essere "spezzettate" per renderle giocabili.

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