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24.7.08

Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo

Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull (USA, 2008)
di Steven Spielberg
con Harrison Ford, Shia LaBeouf, Cate Blanchett, Ray Winstone, John Hurt, Karen Allen


Ma quanto è bello andare al cinema aspettandoti meno di un cazzo! Soprattutto se poi quello che trovi è tutto sommato ben di più di un cazzo. Voglio dire, passa un mese in cui ti convinci che, come temevi, 'sto quarto Indiana Jones sarà una porcheria infame, in cui ne leggi peste e corna un po' dappertutto, in cui solo qualche voce sfiatata osa dirne bene, e finisci per presentarti al cinema addirittura svogliato, certo non emozionato, ma solo perché, che fai, non ci vai?

E poi che succede? Succede che dopo una mezz'oretta pensi "oh, mi sta piacendo" e, caspita, cominci a gongolare per davvero. Ti rendi conto che tutta quella parte iniziale così amara e sofferente, con quell'Indiana Jones sconfitto e abbacchiato dalla vecchiaia sua e di un paese che lo scaccia in malo modo, è proprio bella e sentita. Pensi che è un bel modo per rielaborare e riscrivere il classico inizio di tutti gli Indiana Jones e che, nonostante il frigorifero, si comincia proprio bene.

E mentre Henry Jr. e Mutt fanno casino in moto e tu sei lì che ti diverti come un bimbo, cominci a pensare che, ah, cazzo, è vero, qua dietro alla macchina da presa mica c'è quel vecchio scorreggione rincoglionito di Lucas. No no, c'è il caro Steven, uno che anche la peggiore minchiata te la gira come si deve. E - per esempio - ti rendi conto che per la prima volta da chissà quanto tempo stai guardando un film d'avventura in cui nelle scene d'azione si capisce che cazzo succede! Delle gran belle scene d'azione, ariose, spettacolari, sensate, con un capo e una coda, in cui non sono il caso e una macchina da presa traballante a dominare tutto.

E poi pensi che è divertente vedere Harrison Ford che fa Sean Connery e Shia LaBeouf che fa Harrison Ford, perché in fondo è anche giusto che vada così. E via di questo passo, con qualche battuta davvero riuscita ("Non erano te" e sorrisone adorabile di Marion a seguire), con quella bella atmosfera avventurosa, caciarona, rozza e sporca, con quei cattivacci-macchietta, con quel continuo prendere sberle e rialzarsi, sempre e comunque, fino alla fine. Siamo proprio lì, da quelle parti, da quelle di Indiana Jones.

E magari non avrà lo spirito graffiante, innovativo, prepotente e arrogante che, come tutti i primi film di Spielberg, aveva I predatori dell'arca perduta. Magari non avrà l'ingombrante, adorabile, insostituibile presenza di Sean Connery, che da sola teneva in piedi L'ultima crociata. Ma perlomeno non ti sta facendo cacare come ti ha fatto cacare (perché davvero ti aveva fatto cacare) Il tempio maledetto l'ultima volta che l'hai visto.

È una bella avventurona, gradevole e divertente, che non tradisce un cazzo (suvvia), che giocherella e tira di gomito coi fan, strizzando l'occhio, citando e riciclando un po', che si racconta con passione e amore divertendo dall'inizio alla fine. Avrà i suoi difetti, tipo uno sviluppo della trama davvero schematico (ma tanto più che negli altri?), non sarà bellissimo e perfettissimo e certo non ha il culo di essere il primo, anzi, ha la sfiga di essere l'ultimo e di esserlo facendo fronte a vent'anni di attesa. Ma chiude, e chiude bene, degnamente, con fra l'altro una bella chiosa finale, senza passaggi di consegne imbarazzanti e improponibili. Anzi, lo piglia per il culo, il passaggio di consegne. Bello, nonostante Lucas. E pazienza per Darabont.

23.7.08

E venne il giorno

The Happening (USA, 2008)
di M. Night Shyamalan
con Mark Whalberg, Zooey Deschanel, Ashlyn Sanchez, John Leguizamo


Lady in the Water, che con tutta la buona volontà proprio non sono riuscito ad apprezzare, era comunque graziato dalla solita, estrema cura formale di Shyamalan e caratterizzato dall'essere un film molto personale, palesemente sentito dall'autore, per certi versi evidentemente più "suo" di tutti gli altri, e quindi automaticamente tosto, duro, incomprensibile, inaccettabile. Insomma, poteva piacere o non piacere, a me certo non era piaciuto, ma aveva comunque una sua forza, una sua carica, un suo bel perché.

Ce l'ha, The Happening, un suo bel perché? Nì, dai. Perché indubbiamente dei meriti ci sono, ma anche un po' troppi demeriti, e alla fine l'amaro in bocca è sinceramente troppo. Shyamalan sostiene di aver realizzato un b-movie della madonna, tutto panico e atmosfera. E io ne sarei ben contento, se così fosse. Ma così non è, o almeno a me non sembra. Mi sembra invece che non ci sia riuscito mica tanto bene, e che piuttosto molto meglio gli zombi di Zack Snyder, per dirne uno.

Mi sembra che in The Happening ci siano almeno due o tre scene madri meravigliose, su tutte l'agghiacciante incipit e la splendida passeggiata nel vento (quasi) finale, davvero romantica, emozionante, sentita, per quanto poi rovinata dal finalaccio "obbligatorio". In mezzo, però, c'è un racconto che non decolla mai, ci sono protagonisti proprio poco interessanti, ci son dialoghi talmente puerili e mal scritti da far pensare che i personaggi siano tutti folli, anche quelli che folli non diventano.

Si dovrebbe raccontare del panico e dell'ignoto, del tremendo senso d'ansia generato dal non sapere, dal ritrovarsi in pericolo senza capire che accade, ma qualcosa non funziona e solo per brevi attimi il sentimento colpisce davvero. Per tutto il resto del tempo si è un po' preda del ridicolo. E non aiuta forse l'abbandono quasi totale del culto dell'immagine bella, precisa, perfetta e davvero tanto figa che, diciamolo, è sempre stato l'asso nella manica di chiunque volesse difendere anche il meno riuscito dei film di Shyamalan. Qui non c'è neanche questo.

Sembra quasi averlo fatto apposta, sembra quasi dire "oh, basta, non c'è più ragione per difendermi, se vi sto sul cazzo, insultatemi pure". Eh, a me non stai sul cazzo, fosse anche solo perché Unbreakable rischia seriamente di rimanere per sempre il film di (circa) supereroi più bello della storia, ma certo ti sto perdendo di vista. E di sicuro - ma già lo percepivo da un paio di film - non riesci più a fregarmi. Non ce la fai più a rendermi credibili anche le minchiate più assurde che ti venga in mente di raccontarmi. Son cambiato io o sei cambiato tu?

P.S.
Ma per quale cazzo di assurdo motivo senza senso una persona può decidere di far doppiare da una bambina un personaggio che - PORCA TROIA - frequenta Princeton e - PUTTANA EVA - non è una fottuta bambina? Perché sei stronzo, immagino.

22.7.08

Molto incinta

Knocked Up (USA, 2007)
di Judd Apatow
con Seth Rogen, Katherine Heigl, Paul Rudd, Leslie Mann


Spaventato dal timore nei confronti delle sfiatate e ormai insostenibili commediole americane tutte uguali e tutte divertenti come un calcio nei coglioni, bloccato poi - lo ammetto - da un titolo italiano impresentabile, a suo tempo ho trascurato Molto incinta. Certo, m'incuriosiva, perché ne sentivo parlare bene e perché continuavo a leggere e percepire entusiasmo su questo e sugli altri film partoriti da Judd Apatow e amichetti vari, e quindi mi ero messo in testa di vederlo, prima o poi.

Alla fine, stimolato dagli euro in singola cifra che chiedevano su Axelmusic per l'HD-DVD (che si vede da Dio, ovviamente), ho investito sulle avventure del latin lover Seth Rogen. E ho fatto benissimo, perché Molto incinta (Knocked Up, santoddio) è un gran bel film, una commedia romantica hollywoodiana capace di scardinare gli schemi del genere lavorandoseli dall'interno, senza tradirli, anzi abbracciandoli fino all'inevitabile lieto fine, ma spennellandoli di nichilismo e furia corrosiva.

Knocked Up, tanto per cominciare, ammazza di risate. In un mondo in cui la commedia americana media dura novanta minuti e rompe il cazzo dopo quaranta, il film di Apatow spacca dal ridere per due ore abbondanti, senza un attimo di cedimento, senza che ci sia mai l'impressione di brodo allungato. Tutto quel che c'è, ci dev'essere, ci sta bene, diverte, con un senso del ritmo e una solidità davvero notevoli.

Ma non basta, il bello è anche altro. Per esempio il fatto che si parte da una situazione standard (notte alcolica, danno irreparabile) e per certi versi assurda, procedendo poi per tutti i passi tipici della commediola, che è facile prevedere, ma riuscendo lo stesso a stupire e sorprendere. Perché? Per la qualità della scrittura e la voglia di uscire dai soliti stereotipi buonisti e per famiglie.

In Knocked Up ci sono bei personaggi, che escono dalle macchiette mostrate nei primi minuti e svelano insicurezze, dubbi, sentimenti, schemi mentali tremendamente veri, credibili, umani, nei quali è facile riconoscersi e identificarsi. E poi c'è il gusto per il basso e il terra-terra, in una commedia in cui i personaggi imprecano e sbraitano, litigano e s'incazzano, scoreggiano e sboccano, ma lo fanno per davvero, non si girano dall'altra parte facendo versi in un cestino. E tutto questo non con la voglia di eccesso, di esagerazione infantile tipica dei Farrelly. No, col sincero desiderio di raccontare persone vere e credibili. Ed è per questo che funziona sul serio. Bello, bello per davvero.

21.7.08

Bioshock

Bioshock (2K Games, 2007)
sviluppato da 2K Boston/2K Australia - Ken Levine


Dopo aver impiegato neanche due settimane a giocarmi Super Mario Galaxy in tutte le salse, ci ho messo svariati mesi a finire Bioshock (e un altro po' di tempo prima di decidermi a scriverne). Del resto, funziona così, e non è che sia perché Bioshock mi è piaciuto meno di Mario Galaxy, anzi. Ecco, appunto, leviamoci subito il pensiero: dopo aver provato Bioshock, rimane Mario Galaxy il mio gioco del 2007? Boh, penso di sì, anche perché Bioshock l'ho giocato nel 2008, quindi che senso avrebbe cambiare idea? E poi come fai a confrontarli? Ma soprattutto, chi se ne frega?

Bioshock, comunque, è un bellissimo coso. Sì, coso, perché se lo chiami videogioco poi ti dicono che ha meccaniche vecchie di dieci anni, se lo chiami racconto poi ti dicono che l'intreccio è esile e banale, se lo chiami esperienza poi ti dicono che usi parole a caso per arrampicarti sugli specchi. E allora diciamo che è un coso, una roba trasversale che si infila in vari pertugi, succhia modi di fare, di giocare e di narrare da tutte le parti e mette assieme una cosa globale davvero bella, appassionante, ricca e riuscita. Magari è uno di quei casi (o cosi, o anche così) in cui l'insieme è superiore alla somma delle singole parti.

Però anche dire questo non rende l'idea, perché da un lato riduce la potenza che queste singole parti sono in grado di sfoderare, dall'altro non rispecchia la pochezza di altri aspetti, che indubbiamente c'è e si vede. Non lo si può negare, le meccaniche di gioco proprio proprio un'orgia d'innovazione e perfetto design non lo sono. Oddio, magari dire che è tutto vecchio di dieci anni fa un po' estrema e gratuita cattiveria, ma certo, per essere un gioco che se la menava da erede di System Shock 2, fa un po' strano rendersi conto che più che altro è una specie di System Shock 2 for dummies. Ma d'altra parte, via, siamo adulti e vaccinati, ormai l'abbiamo capito che non li fanno più i giochi di una volta (quando c'era Lui), e alla fin fine si vive benissimo lo stesso. Anche se le mappe non sono un trionfo di design illuminato e innovativo? Sì. Anche se ci son quattro nemici in croce ripetuti all'infinito? Uhm, boh, io sì, non è che abbia patito poi tanto 'sta cosa. Al limite son troppi, ma insomma, suppongo fosse anche perché giocavo a livello hard. E poi c'è tutto il buono, che è davvero tanto e gustoso.

Bioshock, per dirne una, ha una direzione artistica fuori parametro, roba che davvero non ci si crede. Rapture, l'utopia sommersa creata da Andrew Ryan e mandata a mignotte dalla natura umana, è un posto meraviglioso, che da solo vale il gioco. Il punto è che è proprio bello andare in giro, esplorare ogni anfratto, ogni centimetro, scoprire ogni piccola cosa nascosta dietro un angolo, coperta da un'ombra. C'è una ricerca, uno studio, una purezza di design che fa paura. Vagare in giro e stupirsi per quel che si vede è talmente bello da rendere piacevole e per nulla pesante la ricerca nerd dei segreti, degli oggettini, degli Obiettivi da sbloccare (e infatti, vedi un po', assieme a Dead Rising questi sono gli unici mille punti non sportivi ad essersi meritati il mio prezioso tempo).

L'intreccio, per quanto semplice ed esilino negli sviluppi, si appoggia su una capacità di creare atmosfera incredibile - le prime ore di gioco, soprattutto, sono da mozzare il fiato - e sulla voglia di mettere in scena tematiche adulte e profonde. E se è vero che il tanto decantato conflitto morale non va tutto sommato molto oltre una visione piuttosto elementare e manichea, non si può comunque ignorare quanto di buono venga detto per "bocca" dei mille diari registrati sepolti fra le macerie. Una storia stratificata e ricca, solida nel ricucire ogni apparente buco tirando le fila di tutti i discorsi, affascinante nel dipingere un affresco fatto di mille vite spezzate, capace di buttare sul piatto riflessioni etiche, politiche, sociali importanti e non banali, con un taglio adulto che convince fino in fondo. Si ispira a George Orwell e all'oggettivismo di Ayn Rand, sfida ad affrontare le conseguenze delle proprie azioni e prende in giro raccontando di un protagonista burattino nelle mani altrui e mai totalmente padrone di quel che fa. E compone il tutto un pezzo per volta tramite le azioni del giocatore, ponendo il potere della narrazione nelle mani di chi stringe il pad e non spezzando praticamente mai l'illusione di esserci.

In più, oltre ad essere narrativamente forte, Bioshock non è neanche un gioco da buttare, via. Pur nella sua semplicità, vanta comunque un design misurato e ben calibrato che, fra potenziamenti e gadget vari, missioni secondarie e obiettivi laterali, riesce a tirar fuori un motivo d'interesse ogni volta che la palpebra potrebbe stare per posarsi. Quando si finisce di baloccarsi con un potere, un'azione, una trovata, salta fuori qualcos'altro, ed è sempre così, dall'inizio alla fine. Non ci sono tantissime idee, forse, ma quel che c'è è ben distribuito e sparso in giro, nel contesto poi di un gioco che fra armi, plasmid e menate varie offre buone opportunità decisionali e un discreto senso di libertà nell'affrontare la sua struttura comunque lineare. E poi ci sono due o tre momenti dalla carica emotiva e narrativa devastante e un senso del teatro clamoroso, con picchi d'atmosfera non tanto facili da eguagliare, che veramente rendon fieri di essere andati avanti e averli assaporati. Insomma, Bioshock ha stile a pacchi.

E quindi sì, dai, cazzo, diciamolo, che il coso Bioshock alla fine è meglio di quanto le singole parti possano dire. Che non ha davvero senso mettersi a sezionarlo e a pignoleggiare su questo o quell'elemento, quando l'esperienza offerta è tanto affascinante, seducente, provocante, intelligente, bella. Se poi sia un capolavoro, una pietra miliare all'altezza delle aspettative che si erano generate, un altro passo verso il riconoscimento del videogioco come forma d'arte, beh, non lo so e sinceramente me ne frega pure pochino. Tanto fra poco esce The Dark Knight e me lo vedo al cinema in originale, che me ne frega di Bioshock?

3.7.08

Ma questa cosa?

2.7.08

Cannes 2008

La rassegna milanese di Cannes, negli anni pari, è sempre un delirio, perché ai film, al lavoro, alle finali NBA, all'evento che per qualche motivo mi ruba sempre uno o due giorni, si aggiungono i Mondiali/Europei di calcio. E infatti si paga dazio con un livello di stanchezza devastante e una necessità di dormire insopportabile. Comunque, ancora una volta, sono sopravvissuto, e - seppur in notevole ritardo - sono pronto a parlare un po' di quel che ho visto. Tanto per cambiare, invece che secondo l'ordine di visione, metto i film in film divisi per sezione, e magari pure in ordine alfabetico. Tanto ne ho visti pochi, appena una dozzina, quindi facciamo in fretta.

Concorso
Entre les murs (Francia)
di Laurent Cantet
con François Bégaudeau
Palma d'oro

Cantet - di cui prometto che prima o poi riuscirò a guardare il celebratissimo Risorse umane - mi aveva fulminato con A tempo pieno nella rassegna di Venezia del 2001 (madonnadeddio, all'epoca ero in grado di vedere quarantasette film in otto giorni, ora mi sfianca vederne undici... mi sento vecchio). Poi, però, mi ha fatto venire lo scorbuto con Verso il sud, visto nella rassegna di Venezia del 2005. Sono quindi molto lieto di annunciare che questo Entre les murs è veramente un gran bel film e una Palma d'oro una volta tanto davvero convincente. Racconta della vita di tutti i giorni all'interno di una scuola media francese, seguendo in particolare il lavoro di un professore, ma lo fa evitando di romanzare e di cadere nei soliti stereotipi da film "scolastico". Il piglio è quasi documentaristico, la sceneggiatura è solida e credibile, piena di personaggi che scivolano fra le zone d'ombra e non si mostrano come strettamente positivi o negativi. E, soprattutto, il cast è perfetto: bravo davvero Cantet a far recitare in questo modo pazzesco tutti quanti gli attori, molti dei quali dubito siano esattamente professionisti scafati. Forse Il divo e Gomorra sono superiori, forse no, ma certo questo è un gran film, potente, intenso, importante.

Gomorra (Italia)
di Matteo Garrone
con Toni Servillo, Gianfelice Imparato, Maria Nazionale, Salvatore Cantalupo
Grand Prix

Non ho letto il libro ("Ma come, sei pazzo? Leggilo subito!"), ma ho letto in giro che Garrone ha pescato nel sottobosco, tralasciando le grandi storie di camorra e limitandosi a raccontare dei piccoli pesci, della bassa manovalanza. E ha fatto gran bene, perché ne vengono fuori personaggi lontani anni luce ma allo stesso tempo impossibili da non sentire tremendamente vicini. Gomorra ti prende e ti trascina nello squallore e nella merda, ti costringe a vivere per un paio d'ore abbondanti dove non vorresti mai stare. Non giustifica, non motiva, non ragiona, ti sbatte solo in faccia, con la cruda voglia di farti del male vero, duro, fisico. Realistico e schietto, privo di moraline o di approfondimenti, racconta quel che deve raccontare in maniera splendida e perfetta, commettendo il solo (presunto) "errore" di non fornire contesto, di non voler fare il vero film "di denuncia".

Il divo (Italia)
di Paolo Sorrentino
con Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Giulio Bosetti, Flavio Bucci
Premio della giuria

Splendida, splendida prova di coppia per Sorrentino e Servillo. Il primo si conferma regista pazzesco, in grado di porre (quasi) definitivamente il suo enorme talento registico al servizio di ciò che vuole raccontare, senza più l'impressione del virtuosismo autocompiaciuto e bisognoso di applausi. Il secondo regala un'interpretazione mostruosa, perfetta, capace di non apparire macchiettistica nel ritrarre un uomo che per certi versi macchietta è. Il divo è un grandissimo film, grottesco, seducente, curato nei minimi dettagli, in cui ogni singola inquadratura, ogni minimo movimento di macchina ha un suo senso perfetto e meraviglioso. Ha forse il solo "difetto" di dare davvero tanto per scontato e pretendere attenzione vispa e solida da parte dello spettatore fin dal primo minuto, ma vale ogni sforzo che richiede.

Üç maymun (Turchia)
di Nuri Bilge Ceylan
con Yavuz Bingöl, Hatice Aslan, Ahmet Rifat Sungar
Premio alla regia

Le solite storie da film festivalieri, con donne disposte a tutto per il bene del proprio figlio e mariti che faticano un po' ad accettare fino a dove possa giungere questo "tutto". Girato davvero bene, poco da dire, da vedere è proprio una goduria. Però 'sto premio mi sembra un po' un voler accontentare tutti e - questo sì - che non sia andato a Sorrentino fa un po' ridere.

Waltz With Bashir (Israele, Francia, Germania)
di Ari Folman
Un soldato israeliano che ha assistito al massacro di Sabra e Shatila ha rimosso dalla memoria l'accaduto, fino al punto di non avere più certezze sulla sua reale partecipazione. Per cercare di mettere assieme i ricordi, decide di incontrare le persone che si trovavano in Libano con lui e farsi raccontare la loro versione dei fatti. Ne nasce una specie di interessante e toccante documentario realizzato sotto forma di cartone animato. Ritmi blandi, molto dialogo, qualche passaggio davvero evocativo, una voglia di "far poesia" a tutti i costi che a tratti mi ha lasciato perplesso, una colonna sonora magari un po' fuori posto e più adatta a un film d'azione americano, ma anche tanta capacità di colpire allo stomaco con forza e impeto. La parte finale, nella quale finalmente il protagonista recupera i ricordi e l'animazione lascia spazio ad immagini di repertorio, lascia di sasso. Agghiacciante.


Fuori concorso
Sangue pazzo (Italia)
di Marco Tullio Giordana
con Monica Bellucci, Luca Zingaretti, Alessio Boni

Marco Tullio Giordana deve aver perso il senno da qualche parte durante la lavorazione di La meglio gioventù e non sembra essere in grado di riprendersi. Con quella precedente produzione, Sangue pazzo condivide la natura televisiva del progetto e l'impressione che sepolto lì sotto ci sia un gran regista non in grado di esistere fino in fondo. Ma mentre la saga dei Carati aveva il problema di perdere mano a mano coesione e, dopo una bellissima prima parte, sfaldarsi sempre più, questo Sangue pazzo è un'opera schizofrenica, fatta di clamorosi alti e bassi. Il melodramma, che dovrebbe fare da motore alla vicenda, funziona davvero poco, vuoi per una scrittura abbastanza debole dei personaggi, vuoi per le prove poco convincenti di buona parte degli attori, vuoi perché la Bellucci azzecca due espressioni in croce su 150 (centocinquanta!) minuti. A funzionare meglio è lo sguardo sulla grettezza a cui la guerra è capace di condurre, con scoppi di forza drammatica improvvisi e che ogni tanto colpiscono allo stomaco, nonostante un fastidioso retrogusto di maniera e di posticcio. Due ore e mezza che vanno via abbastanza tranquillamente, va detto, ma non dicono nulla di nuovo e quel che dicono lo dicono pure maluccio. E l'"amichevole partecipazione" di Lo Cascio è davvero buttata lì, sembra un cameo da film di John Landis.


Un Certain Régard
Tulpan (Germania, Svizzera, Kazakistan, Russia, Polonia)
di Sergey Dvortsevoy
con Ondas Besikbasov, Samal Esljamova, Askhat Kuchencherekov
Vincitore della sezione Un Certain Régard

Un affascinante e divertente viaggio nella vita selvaggia di una famiglia kazaka. I dubbi, le speranze, i desideri e i difficili rapporti famigliari. Film standard da festival, silenzi, macchina da presa ferma, drammi quotidiani dallo scarso impatto melodrammatico. Però bello.


Quinzaine des Réalisateurs
Acné (Uruguay, Argentina, Spagna, Messico)
di Federico Veiroj
con Alejandro Tocar, Julia Català

Un bel filmetto sulla vita di un adolescente brufoloso e un po' sfigato alla disperata ricerca del suo primo bacio (per il sesso si è già abbondantemente provveduto a colpi di prostitute). Simpatico e tenero, forse un filo ripetitivo, ma interessante per come riesce a raccontare la solita storiella in maniera tutto sommato inedita.

Eldorado (Belgio, Francia)
di Bouli Lanners,
con Bouli Lanners, Fabrice Adde
Premio Label Europa Cinemas

Divertente road movie che mette assieme un'improbabile coppia di pseudo amici improvvisati: un burbero bestione e una specie di sfigatissimo ladro/tossico colto con le mani nella marmellata. I due s'imbarcano in un viaggio alla ricerca di genitori perduti e raccontano allo spettatore una faccia di Belgio affascinante ed evocativa. Risate e un po' di malinconia. Quando sono passato a Brusselles c'erano manifesti dappertutto: fanno bene, è un bel film.

The Pleasure of Being Robbed (USA)
di Josh Safdie
con Eléonore Hendricks, Josh Safdie

Uno sguardo ammosciato e spento nella vita di una tizia che tira a campare rubando a destra e a manca. Piatto, monocorde, banale e "festivaliero" nel peggiore dei modi possibili. Un lancinante mattone sui testicoli.


Ecrans Junior
Diari (Italia)
di Attilio Azzola
con Roisin Greco, Amine Slimane, Antonio Sommella, Manuel Ferriera, Maria Teruzzi, Matilde Pezzotta, Joseph Scicluna, Monica Barbato, Davide Lottfalla, Luca Sonetti,
Sonny Aro, Elena Lolli, José Alberto Beltran Madalenguitia
Vincitore della sezione Ecrans Junior

Tre storie di varia gioventù (ma non solo) italiana, raccontate per immagini e tramite le parole scritte sui diari dei protagonisti. Un film d'esordio realizzato con quattro soldi, una produzione indipendente firmata da un regista che - dice - fino all'altro ieri si faceva le rassegne da spettatore e sognava di prendere in mano una macchina da presa. Dopo dieci minuti di film stavo cercando una corda con cui impiccarmi, ma alla fine ho deciso di aspettare e dare fiducia, facendo tutto sommato bene. La natura un po' amatorial-televisiva non se la scrolla di dosso fino alla fine, ma piano piano il racconto prende forma e fanno capolino una manciata di trovate divertenti e personaggi gradevoli. Certo, c'è del poetismo un po' forzato e a conti fatti si vede poco di davvero "nuovo" ma, considerando i mezzi con cui sembra essere stato girato, poteva andare ben peggio.

 
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