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30.5.08

Be Kind Rewind - Gli acchiappafilm

Be Kind Rewind (USA, 2008)
di Michel Gondry
con Mos Def, Jack Black, Danny Glover, Melonie Diaz, Mia Farrow


Be Kind Rewind non sembra un film di Gondry tanto quanto A History of Violence non sembra un film di Cronenberg. Non lo sembra nello sguardo fettoprosciuttato di chi vuole vedere un autore ripetersi all'infinito, tirando fuori ogni volta le stesse cose, che son quelle per cui lo si ama e sono quelle che quindi ci si aspetta (comprensibilmente) e si pretende (scioccamente) di vedere e rivedere ogni volta. Per questa gente che non sa accettare la voglia di cambiare e reinventarsi c'è Tim Burton, che da quasi trent'anni prosegue con la sua poetica darkettona per adolescenti sfigati e diversi ma tanto belli dentro (e io dico così perché mi ha rotto le palle, altrimenti sarei in prima fila a godermi il suo riciclo).

Per chi invece apprezza la voglia di mettersi in gioco c'è Michel Gondry, che con Be Kind Rewind prova a infilare il suo talento visivo allucinato in una struttura narrativa classica e decisamente più "regolare" del solito. Ne viene fuori una commedia sciocchina e deliziosa, che riesce ad essere cinefila senza chiudersi a riccio e diverte di gusto dall'inizio alla fine, reinventando e stupendo all'interno dei meccanismi del genere. Non c'è spocchia, non c'è senso di superiorità, non c'è voglia di essere superiori. Al contrario, c'è un regista che si mette al servizio del film e lo fa funzionare a meraviglia.

Gondry sceglie di fare il bravo e limita gli "svolazzi" a intuizioni felici come la testa di Jerry che quasi smagnetizza la pellicola dello stesso Be Kind Rewind e quel meraviglioso e allucinato viaggio di traverso nella storia del cinema popolare che ci si gode verso metà racconto. E il risultato è un film che - appunto - magari non ha il fascino visivo dei suoi due precedenti, ma conferma comunque il talento del regista francese. Uno capace di farmi sopportare Jack Black, oltre che di intenerirmi con un finale sdolcinato, buonista, ma sincero e sentito. E di farmi rimpiangere di non aver visto Rush Hour 2. Che, insomma, non lo guardo lo stesso, però, eh, intanto un po' m'è dispiaciuto!

28.5.08

Zoolander

Zoolander (USA, 2001)
di Ben Stiller
con Ben Stiller, Owen Wilson, Christine Taylor, Will Ferrell, Milla Jovovich


Ben Stiller mi sta simpatico, anche se la sovraesposizione degli ultimi anni me l'ha fatto un po' venire a noia. Di certo mi stava molto più simpatico quattordici anni fa, quando ancora - perlomeno in Italia - lo conoscevano in pochi e lui si dirigeva in commediole simpatiche come Giovani, carini e disoccupati e Il rompiscatole. Tutto questo per dire che magari, se l'avessi visto sette anni fa, quando Stiller ormai era già un fenomeno adorato da tutti ma ancora non troppo inflazionato, Zoolander mi sarebbe piaciuto di più.

Non che mi abbia fatto cacare, anzi, in realtà mi è garbato non poco. Del resto io son vittima facile di chi si dedica alla comicità dell'assurdo e del nonsense e al citazionismo svergognato, e amo i film demenziali con protagonisti assolutamente non consapevoli, convinti di potersi prendere sul serio fino in fondo. Zoolander è fondamentalmente questo, un delirante concentrato di gag messe in fila che punta tutto sulla demenzialità e sulle prese per il culo di ogni possibile stereotipo legato al mondo della moda (e non solo).

E che lo fa, va detto, con un'intelligenza notevole, accumulando trovate su trovate, riempiendo ogni immagine di piccole e grandi stronzate, molte delle quali sono magari anche destinate a passare inosservate se non ci si concentra per davvero. Insomma, Zoolander è una minchiata colossale, ma è una minchiata di quelle serie, pianificate bene, in cui poco o nulla viene lasciato al caso e in cui c'è talmente "tanto" che anche se non piace tutto qualcosa di divertente lo si trova per forza.

E poi c'è Will Ferrell.

26.5.08

Lo scafandro e la farfalla

Le scaphandre et le papillon (Francia, 2007)
di Julian Schnabel
con Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner, Marie-Josée Croze, Max von Sydow


Lo scafandro e la farfalla racconta gli ultimi due anni di vita di Jean-Domique Bauby, editor della rivista Elle colpito all'età di 43 anni da un attacco che paralizza quasi interamente il suo corpo. Costretto all'immobilità, capace di comunicare solo tramite il battito di ciglia dell'unico occhio ancora funzionante, Bauby trova la forza di mantenersi in vita fino alla fine, impara a comunicare con gli occhi e, tramite l'aiuto di una terapista e un'assistente, riesce addirittura a scrivere il libro di memorie cui si ispira questo film.

Partendo da un materiale tanto prono al patetismo e al melodramma hollywoodiano, Julian Schnabel tira fuori invece un film asciutto e toccante, che si racconta tramite lo sguardo e i pensieri di Bauby. Tutta la straordinaria prima parte giustifica il premio per la miglior regia vinto a Cannes 2007 con una visuale in prima persona che mostra l'ansia, la sofferenza e le cure tramite gli occhi (l'occhio) del protagonista e attraverso i suoi strazianti pensieri. Da sola si merita la visione.

Ma il film rimane ottimo anche quando si sposta su un registro più classico, centellina le emozioni soprattutto tramite i ricordi della vita passata, mostrando il rapporto con le tante donne, l'affetto per il padre e l'ansia per tutto ciò che è passato e non potrà più tornare, fino a una chiusura davvero emozionante, che si riaggancia all'avvio toccando definitivamente le budella.

23.5.08

Iron Man

Iron Man (USA, 2008)
di Jon Favreau
con Robert Downey Jr., Jeff Bridges, Gwyneth Paltrow, Terrence Howard


Il "problema" dei film tratti dai fumetti di supereroi è che sono bene o male sempre pensati con in mente un target adolescenziale. Nulla di male, in fondo avviene lo stesso con buona parte dei fumetti a cui si ispirano, ma certo un po' spiace al pensiero di quanto al contrario talvolta, in determinate saghe o determinati albi, gli stessi personaggi vengano posti in contesti ben più adulti, dalla scrittura spesso eccellente e dall'appeal maturo e ricco.

E spiace anche che un film come Iron Man si poggi su temi dal grosso potenziale limitandosi a sfiorarli e a ricoprirsene per darsi un tono, senza però affondare il coltello neanche un po'. Voglio dire, quanto sarebbe stato più bello, il film di John Favreu, se avesse provato a fare reale satira, graffiante e incisiva, anche solo sul modello di Lord of War? O magari sarebbe stato fuori luogo, vai a sapere.

Oh, poi, per carità, ci si accontenta pure di un semplice filmetto post-puberale, se ben pensato e confezionato. In fondo stiamo parlando di un blockbusterone con protagonista Robert Downey Jr. (che, c'è poco da fare, è Tony Stark), che fa impressione quanto riesca a recitare deliziosamente bene anche quando dice stronzate dall'inizio alla fine. E non bastasse lui, c'è il Drugo imborghesito e maligno, che regala un cattivo magari non memorabile, ma di bell'impatto. Cazzo, perfino quella trota salmonata della Paltrow riesce ad essere adorabile, se non si fa caso alla voce da ritardata che le han dato in italiano.

E c'è pure una sceneggiatura frizzante, ritmata, con tante trovate divertenti, un discreto numero di strizzate d'occhio per i fan e un abbozzo di storia un po' più corposo del solito. Con un protagonista che sì, ok, si fa prendere dal senso di responsabilità, ma è e rimane un riccastro viziato, egocentrico e onnipotente, almeno un pochino antieroe e molto meno puro, banalotto e saggio di tanti suoi colleghi. E degli effetti speciali che fan paura e ancora una volta mettono su schermo quello che fino a qualche anno fa chi s'aspettava potesse funzionare tanto bene, regalando un paio di momenti action davvero spettacolari e riusciti.

Il problema, semmai, è che c'è anche Jon Favreau. Uno che - per carità - fa il suo diligente dovere, regala perfino qualche abbozzo di idea, non scivola in evidenti sbavature, ma insomma, realizza anche un film piatto, medio(cre), derivativo, privo di qualsiasi guizzo e anche, diciamocelo, un filo lunghetto. Caspita, almeno gli Spider-Man, i Batman, gli X-Men, lo stesso Hulk, per quanto non siano magari fulgidi esempi di narrativa profonda e adulta, hanno dietro alla macchina da presa registi di ben altro livello. E un po' li si rimpiange, via.

Oh, poi, intendiamoci, c'è Iron Man tutto luccicante e figo che si prende i missili in faccia e si rialza sporco di fango. E vola. E mena i cattivi. Serve altro? Alla fine non è manco detto. In fondo, anche qui, come sempre, ce l'ho avuto quel momento. Quando indossa per la prima volta l'armatura definitiva e va a far casino nel deserto. Ecco, lì. Mi son ritrovato a guardarlo con l'occhio spalancato, la pupilla dilatata e il sorrisino idiota. Quindi va bene così, ci mancherebbe, anche se a 'sto giro niente pelle d'oca (starò invecchiando).

E in fondo magari il problema è pure un po' inverso rispetto a quanto ho provato con I Fantastici Quattro. Di quello avevo letto e sentito talmente male che alla fine mi ha sorpreso in positivo. Di questo ho letto e sentito talmente bene che alla fine, ecco, insomma... tutto qui? Sì, tutto qui. Ma poteva andare peggio, via.

21.5.08

Friday Night Lights

Friday Night Lights (USA, 2004)
di Peter Berg
con Billy Bob Thornton, Lucas Black, Garrett Hedlund, Derek Luke


Ma che bella, bella cosetta, questo film. Che parla di provincia americana, delle difficoltà di vivere e crescere in luoghi dispersi nello spazio e nel tempo, in cui ci si muove all'interno di confini tanto stretti da far male, e dai quali fuggire diventa più che un desiderio, quasi una questione di vita o di morte.

La difficile vita di giovani uomini, costretti a sentirsi ben più adulti di quanto non siano, sottoposti a pressioni che in un mondo ideale non li riguarderebbero ancora per tanti anni. Nelle vite dei campioncini di Odessa c'è il difficile rapporto con genitori che li pretendono all'altezza dei loro ideali e del loro passato, c'è il desiderio di non deludere le terrificanti aspettative, c'è la voglia di riuscire in qualcosa di forte, grande, importantissimo, che c'è ora e per molti di loro non ci sarà poi più, che segna a fuoco un momento importante e irripetibile della loro vita.

C'è tanta emozione, forte, intensa, straziante, sottolineata da ottime interpretazioni - grandissimo come al solito coach Billy Bob Thornton - e accompagnata dalle inconfondibili e azzeccatissime musiche degli Explosions in the Sky. Ci sono immagini splendide, passioni travolgenti e sogni infranti, la tenerezza di ragazzi travolti dalla vita e che di fronte alla crisi esplodono mostrando tutta la loro bella fragilità. C'è un bel film, fatto di persone, emozioni, sentimenti, che parla di sport nel modo migliore è più vero in cui sia possibile farlo.

Anche perché poi, il bello di Friday Night Lights è che funziona mortalmente bene pure al livello più terra-terra di film sportivo. Anzi, proprio per la bontà di quanto sta sotto, per la bravura nel tratteggiare le persone e le loro storie, il trasporto e la passione nei confronti del risultato sportivo diventano ancor più micidiali del solito. E quel finalaccio amaro e malinconico, mamma mia, la lacrima te la strappa davvero. Bello, bello, bello. E voglio vedermi pure il telefilm!

19.5.08

Bei momenti #012

Un benvenuto nel fantastico mondo dei nerd a Stefano Calcaterra, futuro campione mondiale interdisciplinare di Rock Band. E pure un bacio a mamma e papà: mi raccomando, livello Expert fin dall'inizio.

La banda

Bikur Ha-Tizmoret (Israele, 2007)
di Eran Kolirin
con Sasson Gabai, Ronit Elikabetz, Saleh Bakri, Khalifa Natour


In genere un film come La banda mi capita di vederlo durante le rassegne di Cannes e Venezia. Son lì che vago fra un cinema e l'altro, fra una mattonata curdo-uzbeka e una genialata cino-coreana, mentre cerco di schivare l'ennesima tritatura di palle afghana e punto diretto su una minchiata iuessei per tirare il fiato, e mi imbatto, completamente a caso, semplicemente perché ci si incastrava bene come orario, in un bel filmetto sorprendente.

Perché alla fine, se lo punti alla cieca e non sai cosa aspettarti, La banda ti sorprende anche. Con quella sua riuscita cura per l'immagine, senza risultare per questo patinato o forzato, con le sue intriganti intenzioni, la sua voglia di mostrare - seppur in maniera lieve - il contrasto fra culture diverse, con quel suo bel romanticismo dolce e classicheggiante.

Ecco, sì, in una Cannes un po' pallosa avrebbe rappresentato una boccata d'aria fresca. Il problema è che se invece vado a vederlo così, fuori contesto, con attorno l'alone mistico di riconoscimenti raccolti un po' dovunque, con l'impressione di stare per vedere qualcosa di bello per davvero, beh, insomma, eh.

Voglio dire, via, La banda è una commediola o poco più, che non diventa certo migliore solo perché racconta di un gruppo d'egiziani infilato controvoglia in una cittadina israeliana. Anche perché in realtà non fa molto per raccontarli davvero, si limita a puntare su una storiellina romantica e tanto tenera, speziandola con qualche gustoso tocco di surreale, ma non affondando mai davvero il coltello nella piaga dello scontro culturale.

Ci sono un paio di battute azzeccate, c'è qualche personaggio folle e stralunato, c'è un simpatico senso dell'assurdo, ma inizia e finisce tutto lì. Nella commediola malinconica e triste, che prova a sembrare molto più ricca, intensa e intelligente del dovuto con qualche trovata di regia copiata altrove. Però rimane il dubbio: se mi fosse capitato davanti a metà rassegna, con la palpebra pesante e l'alito fetente, avrei parlato di "bella sorpresa"?

18.5.08

Poz



Cicci pure lui (e vaffanculo).

16.5.08

Quando l'amore brucia l'anima

Walk the Line (USA, 2005)
di James Mangold
con Joaquin Phoenix, Reese Witherspoon, Ginnifer Goodwin, Robert Patrick


Quando l'amore brucia l'anima, a me si bruciano i coglioni, perché davvero un titolo così non si può vedere. Ma d'altra parte bisogna ammettere che la dozzinale banalità di un adattamento che mortifica l'originale Walk the line in una roba da fiction televisiva è tutto sommato adatta al caso, visto che il film di Mangold è - se non dozzinale - quantomeno banale, prevedibile, già visto mille volte.

Tutte le regole non scritte, tutti gli stilemi del polpettone biografico sono sciorinati e rispettati, anche al punto di stravolgere in pieno elementi importanti del testo ispiratore. O così pare, se è vero come leggo in giro che il rapporto padre/figlio raccontato da Cash è ben diverso da quello che si vede nel film. Ma d'altra parte, che fai, in un film che racconta la tormentata vita di un vero eroe americano non potrai mica negarti un bel conflitto di quelli tosti, con sensi di colpa reciproci e accuse feroci, no?

No che non te lo neghi, piuttosto sorvoli sulla profonda religiosità del Johnny Cash, ridotta al rango di nota a margine per concentrarsi invece sulla romantica serie di "ti prendo, ti respingo, ti piglio, ti lascio, ti mollo, ti cancello" fra lui e lei. E sul tour itinerante con Elvis e Jerry Lee, pure, che fa colore e fa leggenda. Tanto a tenere in piedi il film ci pensano Reese, che è bella, brava e canta pure meglio di June Carter, e Joaquin, che fa veramente spavento (e a vederlo che si strugge per la morte del fratello un brividino ti ci sale per forza, lungo la schiena).

Ma che poi, intendiamoci, il problema vero è l'averne già visti tanti, forse troppi, di drammoni di formazione, di complicati e contorti rapporti fra padre e figlio (che poi funzionano sempre bene e il respiro intenso te lo fan venire), di romantiche passioni fra uomini in disgrazia e angeli salvatori. E pure un po' il fatto che Cash, sì, ok, lo so chi è, e i suoi American Recordings sono meravigliosi, ma non sono nato in Kentucky e per me lui non è Capitan America, è solo un cantante un po' famoso, che mi dicono essere una leggenda.

E alla fine, in un film del genere, così programmaticamente, sistematicamente, inevitabilmente uguale a tutti gli altri, a fare la differenza sono loro, gli interpreti, intensi, vivi, veri. E lei, la musica, vibrante, proprio da loro due cantata in maniera strepitosa e toccante. Ecco, alla fine Walk the Line è soprattutto chi. Chi viene raccontato, certo, ma più che altro chi ce lo racconta. E son dei "chi" per cui tutto sommato può valer la pena di sciropparsela, quest'ennesima storia di vita in cui tutto quel che accade è telefonato mezzora prima.

14.5.08

Non è un paese per vecchi

No Country For Old Men (USA, 2007)
di Ethan & Joel Coen
con Josh Brolin, Javier Bardem, Tommy Lee Jones, Kelly Macdonald, Woody Harrelson


È Non è un paese per vecchi uno dei migliori film dei fratelli Cohen? Hai voglia, qua stiamo dalle parti di Fargo e L'uomo che non c'era. Da quelle parti, un po' sopra, un po' sotto, un po' attorno. È No country for old men uno dei migliori film degli ultimi due o tre anni? Ma sì, suvvia, anche se si fa in fretta a smentirmi, con tutti i pezzi da novanta che mi sono perso per strada. È l'ultimo dei due fighetti dal Minnesota un film capace di piacermi tanto ma tanto ma tanto? Uhm.

Oddio, sì, per carità, assolutamente sì. Sì perché - caspita - come fa a non piacermi tanto ma tanto ma tanto una roba diretta in questo modo? Con questa cura, questa strabordante e avvolgente capacità di trascinarti dentro. Con quel dialogo micidiale fra Bardem e il vecchio alla stazione di servizio, con un Josh Brolin che ti chiedi in quale caspita di angolo fosse nascosto fino all'altro ieri, con quell'incredibile bravura nel camminare in equilibrio perfetto sul filo che separa il dramma, il thriller, la satira, il racconto morale. Con Tommy Lee Jones, fra l'altro, che ormai me lo fa venire duro pure se si mette a leggere la lista della spesa.

Eppoi io ho sempre un po' di stima per chi si prende il rischio di sfottere lo spettatore, per chi trascorre due ore montando badilate di materiale, di tensione, di voglia, di lancinante trasporto, e poi ti frega non dandoti neanche un briciolo di soddisfazione. Soprattutto perché m'hanno fregato per davvero, stavolta. Ci son rimasto male, proprio, a vedermi negato il confronto finale, e solo col senno di poi sono riuscito ad apprezzare la cosa. Anche perché, diciamocelo, la cazzata vera viene dopo, in quel dialogo fra Tommy e l'altro vecchio, quell'insostenibile spiega che mi deve fare il sottotitolo e la didascalia, mi deve dire il cosa, il perché e il percome. E che due palle!

Soprattutto quando poi la spiega mi arriva assieme a tre o quattro finali messi uno dietro l'altro, che se c'è una cosa che mi uccide lo spirito e mi ammazza i coglioni sono i film con diciottomila finali. Oh, poi magari è colpa del doppiaggio, e se me lo vedo in originale Tommy Lee me lo fa venire duro anche in quella parte. E d'altronde, se è vero che il finale è quello che ti ricordi uscendo dalla sala, è vero anche che due mesi dopo pensi, che so, a Brolin che aspetta Bardem seduto sul letto, ai cani incazzati che si gettano nel fiume, all'inseguimento notturno fra le macchine. A quelle cose lì, e volendo pure alle riflessioni che ci stanno sotto, che son belle, ricche e profonde, anche se magari era meglio non spiattellarmele in maniera tanto didascalica. Insomma, non mi ha fatto impazzire, ok, ma avercene, di film così, ci mancherebbe!

12.5.08

A History of Violence

A History of Violence (USA, 2005)
di David Cronenberg
con Viggo Mortensen, Maria Bello, Ed Harris, William Hurt


Millbrook, Indiana, Tom Stall è un brav'uomo, pacato e gentile, amato e rispettato dall'intera comunità, con una famiglia bella e adorante. Un giorno si trova costretto a reagire, contro ogni suo credo, al violento tentativo di rapina perpetrato nel suo ristorante. Per la città diventa un eroe, ma altre persone si interessano un po' troppo a questo suo atto di coraggio...

Che A History of Violence sia un bel film da osservare e scrutare non penso lo si possa mettere in dubbio. Cronenberg è sempre lui, con la sua messa in scena elegante, la sua algida capacità di narratore, la sua bravura nel caricare di tensione (emotiva, sessuale, drammatica) i momenti chiave. L'agghiacciante piano sequenza iniziale vale la visione pure da solo, se poi ci aggiungiamo qualche altro momento sparso, la faccia da schiaffi di Ed Harris, quelle due pulsanti scene di sesso e un paio di altri passaggi da mozzare il fiato, beh, il prezzo del biglietto ci sta tutto.

Eppure ci sta anche che le (dis)avventure Tom Stall non mi abbiano convinto fino in fondo, non abbiano saputo aggrapparmisi per davvero alle budella. Di sicuro un po' la cosa è voluta, perché Cronenberg, al contrario di altre occasioni, non spinge tanto sul melodramma. Realizza anzi un noir estremamente freddo, spassionato, quasi sterile, e che comunque a tratti riesce a colpire forte, nello stomaco, grazie alla potenza drammatica dei temi raccontati.

Il forte dualismo fra quel che si è e quel che si vuole essere, il dramma degli eventi che spingono tutti, inesorabilmente, come un vortice inarrestabile, nella direzione opposta a quella che desideri con tutte le tue forze. La voglia di raccontare un western moderno e metropolitano sotterrato a fondo nella sempre affascinante provincia americana. La semplice, rigorosa, asciutta capacità di cucire tutto assieme alla perfezione, senza sbavature evidenti.

Ecco, forse è anche un po' quello, il fatto che sembri tutto così perfettino e pulitino, preciso e al suo posto, in un racconto un po' prevedibile, già visto, magari anche un filo troppo manicheo. E poi, madonna santa, che due palle l'ennesimo cattivo strabordante e sopra le righe, 'sto William Hurt macchietta assurda e fuori luogo, che verrebbe da giustificare con la matrice fumettistica dello script, se non fosse il personaggio in assoluto più stravolto rispetto all'originale. Che poi magari ci sta anche bene, come scheggia di follia impazzita in un contesto altrimenti freddo, misurato, glaciale. O magari no.

Probabilmente la risposta è semplicemente "boh?". Non lo capisco mica tanto, perché 'sto film non è riuscito a prendermi davvero. Quello che so, è che il Cronenberg del dopo M. Butterfly, in genere, fa film che mi piacciono non poco, nonostante questa o quella cosa poco riuscita. A History of Violence, invece, mi sa che è un film che mi piace poco, nonostante questa o quella cosa davvero tanto riuscita.

7.5.08

Il petroliere

There Will Be Blood (USA, 2007)
di Paul Thomas Anderson
con Daniel Day-Lewis, Paul Dano


Per un motivo o per l'altro son passati oltre due mesi da quando ho visto questo film a quando ho trovato la forza di mettermi a scriverne. Non so neanche bene che senso abbia farlo, a sessanta giorni abbondanti di distanza, se non quello di realizzare quanto sia in grado di stamparsi sulla fronte e rimanervi impresso. Anche a sessanta giorni di distanza. O magari è solo che mi infastidisce lasciarmelo dietro così, come se niente fosse. Voglio dire, uno ganzo come Paul Thomas Anderson prima o poi se lo meritava, di apparire nel mio blog. Ché lo so benissimo, lui ci tiene parecchio.

E io ci tengo a dire che Paul Thomas ganzo lo è assai, è uno che promette sangue e prima o poi lo mantiene, uno a cui nelle vene scorre cinema potente e che è nato per scaricarlo su pellicola. Uno che ti avvia due ore e mezza di travolgente, sconvolgente, fantastica narrazione per immagini con un'apertura da mozzare il fiato, da intasarti la gola di polvere mentre agonizzi e patisci assieme a un uomo infilato in un pozzo di sofferenza.

Il petroliere è una storia di (auto)distruzione, di inevitabile declino verso il disastro, che si esprime a botte di clamorose scene madri messe l'una in fila all'altra. C'è più cinema qua dentro che in un centinaio di altre robe pescate a caso nel mucchio degli ultimi [inserire numero a caso] anni. C'è un film che passa un'ora abbondante di quelle due e mezza a torcerti fuori le budella e calpestartele con disprezzo.

E poi c'è Daniel Day-Lewis, bravo come non è possibile esserlo, fuori dalla grazia di Dio al punto da far (quasi) passare in secondo piano Paul Dano, che porca puttana quanto è bravo e intenso pure lui. E quando i due si incontrano di fianco a quell'incredibile e ipnotica pozza di petrolio e volano i ceffoni, uno di quegli schiaffi arriva in faccia pure a chi il film lo sta guardando, e qualcosa si spezza.

Perché Il petroliere è un film meraviglioso anche nel suo imperfetto e imperfettibile farsi abbondantemente i cazzi propri, nel fottersene di tenere in piedi la tremenda tensione narrativa della prima parte fino in fondo. Lì, in mezzo a quell'accecante luce polverosa, qualcosa si spezza, e il vuoto racchiuso nell'animo di Plainview ne fuoriesce avvolgendo tutto e spazzando via qualsiasi barlume di umanità lo circondi.

E così, mentre il Paul Thomas prosegue a scaricarti in faccia come se niente fosse pezzi di cinema strepitoso e straziante, che ti ammazza ogni volta che in qualche modo coinvolge il figlio (l'abbandono, il nuovo incontro, il pranzo al ristorante... madonna mi viene l'ansia), piano piano, un pezzo alla volta, stacca ogni residuo di umanità dal suo protagonista e dall'ossigeno che si respira in sala. E alla fine ti rimane solo la fredda, angosciante, insaziabile follia di un uomo perso nella sua sete.

E, minchia, l'han detto tutti, ma non si può fare a meno di (riba)dirlo. Quella scena lì. Quel pozzo in fiamme, quella musica ossessiva, quell'impressionante, devastante serie di immagini, facce, colori, suoni. Quella. È una delle cose più belle che si siano mai viste su uno schermo. Su qualsiasi schermo. In qualsiasi angolo dell'universo intero.

Oscuro, crudele, delirante, maestoso, impossibile da amare perché lui, per Dio, se ne sbatte il cazzo di essere amato. Lui vuole solo essere lo sbrodolante e travolgente parto di un regista colto da pieno e ampiamente giustificato delirio di onnipotenza. Madonna, voglio rivederlo.

6.5.08

Oh, comunque...

... sta qui, eh.
C'è anche da scaricare in accaddì.

Vojo.

 
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