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28.2.07

Scatole



Ieri ho dato l'addio al posto in cui ho trascorso buona parte degli ultimi sei anni. Future (anzi, Sprea) si sposta, da Via Asiago a Via Brescia. No, non Piazzale Brescia, quello vicino alla casa di Bob, a poche fermate di metro dalla mia. No, Via Brescia, a Cernusco sul Naviglio, a ventisei fermate (sedici di rossa, dieci di verde). In pratica, rispetto al tragitto percorso in questi sei anni, si aggiungono sei fermate, un cambio di linea, il fatto che la verde, passata Udine, va molto più lenta, il terno al lotto di dover prendere un treno su tre che vanno in quella direzione, sei euro di abbonamento interurbano (il doppio). E la distanza fra la metro e la redazione raddoppia. Insomma, ci si diverte.

Si chiude un ciclo, un periodo, se ne apre un altro. E, a pensarci, noto una cosa curiosa. Una puttanata, probabilmente, ma comunque una cosa. Verso la fine del 1997, si è chiuso abbastanza nettamente un periodo della mia vita. Maggiorenne lo ero da un paio d'anni, ma improvvisamente mi ero ritrovato ad aver chiuso con la scuola, a vivere da solo e a cominciare a chiedermi "Ok, adesso che faccio?" A diventare grande, insomma. Da quel momento in avanti, ogni (circa) tre anni si è bene o male chiusa una fase.

Verso la fine del 2000, per esempio, si è decisamente chiusa una fase. In quei tre anni avevo scoperto gioie e dolori della vita da single, ma anche di quella da coinquilino con un po' di persone diverse. Avevo sperperato una marea di soldi e me ne ero goduti (e ne avevo pagato) i frutti. E in parte, bisogna dirlo, me li godo e me li pago ancora. Avevo gestito l'onere del servizio civile e provato sulla pelle la mia prima esperienza lavorativa, in edicola. Mi ero affacciato sul magico mondo di Internet e, grazie ad esso, avevo conosciuto una marea di gente spettacolare, incontrato la Rumi e iniziato a scrivere di videogiochi, prima per passione, poi addirittura per soldi. E in quella prima estate del nuovo millennio mi ero anche gustato la mia prima vera vacanza all'estero (Irlanda, macchina e B&B) da bimbo totalmente autonomo!

Ma, si diceva, verso la fine del 2000 (diciamo pure a cavallo fra 2000 e 2001), questo periodo tanto folle e simpatico si chiuse. Si chiuse per tre motivi. Uno, abbastanza pratico e materialista: l'assunzione in Future Media Italy. Colloquio praticamente imposto dal Solettone, assunzione quasi automatica. Cominciava l'era delle 39 ore settimanali, delle ferie pagate, della tredicesima, delle scadenze fisse, delle menate da impiegato frustrato e dell'assegno a fine mese. Il secondo, beh, che ve lo dico a fare, una certa persona si stava finalmente cavando dal cazzo, e faceva spazio ad altre due persone ben più piacevoli, una delle quali, fra l'altro, ancora oggi vaga per l'appartamento.

E c'è ovviamente il terzo avvenimento, meno netto e identificato nel tempo, meno pratico, magari più romantico. Stava finendo il gran periodo del Vit. Già, it.fan.studio-vit, quella incredibile comunità di gente che avevo conosciuto a cominciare dai primi mesi del 1998, quella a cui più di tutte sono ancora legato, quella che, per carità, ancora esiste e ancora frequento. Per mille motivi, che non ho neanche troppo voglia di approfondire, stava finendo il periodo dello splendido newsgroup, dei tanti raduni memorabili, delle gioie e dei dolori vissuti grazie a quell'enorme cumulo di caratteri. E, insomma, si chiudeva un ciclo.

Nel biennio 2003/2004, per l'appunto (circa) tre anni dopo, succedevano un altro po' di cose. Succedeva, per esempio, la scomparsa dalla mia vita di una persona che mi aveva rovinato il fegato per tre anni e per certi versi, tramite le conseguenze delle sue azioni, me l'avrebbe rovinato anche negli anni venire. Una fuga nella quale, modestamente, credo di aver giocato un concreto ruolo. Succedeva, poi, che lo scettro di schiavista dei collaboratori di PSM passasse nelle mie mani. E, beh, era un bel cambiamento, sotto certi aspetti (ma neanche troppi), per quel che riguardava il mio lavoro (ovvero, non dimentichiamocelo, una buona fetta delle ventiquattro ore giornaliere).

Sempre in quel periodo, mi capitava fra le braccia il mio primo press tour, in quel di Grindelwald, a seguire per la prima volta lo European Pro Evolution Soccer Championship. E un mese dopo partivo per quello che considero - non me ne vogliano le splendide Alpi svizzere - il mio primo vero press tour, a San Francisco per Ubisoft, assieme a Cristian Born, Marco Accordi e al Solettone. Più avanti, nel 2004, esplodeva l'insufficienza renale di Schifilide, all'improvviso, giungendo al culmine nel giro di ventiquattro ore. Vendevo la Fiesta, la mia macchinina, che in tante imprese mi aveva accompagnato fin dal lontano '97. E si mettevano le basi per l'avvento della Rumi in casa Maderna, concretizzatosi a inizio 2005. Insomma, si chiudeva un altro bel ciclo mica da ridere.

Son passati altri tre anni, durante i quali ho sistemato dei problemi che mi trascinavo dietro da troppo tempo e ho viaggiato tanto per lavoro e abbastanza per sfizio. E arriva un altro bel cambiamento, quello descritto in cima. Si chiude davvero una fase, ne inizia una che è ancora da vedere quanto e come sarà diversa. Certo è che, a buttare uno sguardo su questi primi sei anni da lavoratore "serio", di considerazioni se ne possono trarre parecchie. Ma per più di un motivo non è forse questo il luogo. Mi limito quindi a dire che, come detto, si chiude un'altra fase.

Una fase il cui termine viene sancito dalla vacanza in Giappone che sognavo fin da bambino, dal trasferimento lavorativo a Cernusco, da un inizio anno che di buone notizie ne ha portate pochine, e da un nuovo viaggio a San Francisco. Tre anni fa, proprio da San Francisco, iniziai a vagare fuori dall'Europa a spese altrui. E assieme a me c'era uno dei due capoccia di Nextgame. Oggi, tre anni dopo, sempre a spese altrui, torno a San Francisco. E assieme a me c'è l'altro dei due capoccia di Nextgame. Mi sembra proprio che si stia chiudendo un cerchio, ma posso sbagliarmi.

27.2.07

Casino Royale


Casino Royale (USA, 2006)
di Martin Campbell
con Daniel Craig, Mads Mikkelsen, Eva Green, Judi Dench

Quattro anni dopo La morte può attendere, James Bond torna in pista, con un nuovo attore a vestirne i panni e un forte tentativo di ritorno alle origini. Casino Royale racconta le vicende del primissimo romanzo di Ian Fleming, in una sorta di Bond Begins che aggiorna le origini del personaggio ai tempi moderni, smorzandone i tormentoni e adattandone gli stereotipi al fantastico mondo del post 11 settembre. Il risultato è, finalmente, un James Bond guardabile. Roba che non si vedeva da un po' troppo tempo.

Considerando che Martin Campbell ha diretto l'ultimo 007 di mio gradimento e che ero quantomeno intrigato dalla scelta di Daniel Craig come nuovo Bond, mi sono presentato in sala con tutta la fiducia possibile e, devo dirlo, non sono rimasto deluso. Casino Royale racconta la nascita del personaggio e lo fa con un senso del ritmo, un gusto e un divertimento che davvero erano sconosciuti agli ultimi episodi. E Craig è un fantastico Bond, rozzo, rude e di grande presenza scenica. Non ho letto un singolo romanzo di Fleming, ma non faccio altro che sentir parlare di grande aderenza al testo originale (pur con tanti "se" e "ma"). Non che sia necessario, ma insomma, fa anche piacere.

Operazione perfettamente riuscita, quindi? Più o meno. Certo, nonostante le iniziali proteste dei fan, alla fine Craig ha convinto tutti, anche se resta da vedere quanto vorranno portare avanti questo Bond scaricatore di porto e quanto lui sarà in grado di adattarsi nel momento in cui decideranno di ritirar fuori lo 007 super lusso. E si potrebbe anche mettere in discussione l'atto finale del film, che sembra francamente un po' attaccato con lo sputo, messo lì in maniera impacciata e faticosa. Ma rimane comunque un gran bel film d'azione e intrigo, appassionante e tutto sommato anche abbastanza atipico, perché non è che si veda tutti i giorni, un duello finale affrontato al tavolo da gioco.

26.2.07

Ocean's Twelve


Ocean's Twelve (USA, 2004)
di Steven Soderbergh
con George Clooney, Brad Pitt, Catherine Zeta-Jones, Matt Damon, Andy Garcia, Vincent Cassel, Julia Roberts, Casey Affleck, Scott Caan, Eliott Gould, Don Cheadle, Bernie Mac, Carl Reiner. Shaobo Qin

Terry Benedict ha rintracciato Danny Ocean e i suoi compari e ora rivuole indietro i soldi che gli hanno rubato. Con gli interessi. Per un totale di circa duecento milioni di dollari. I nostri simpatici, eleganti e spiritosissimi eroi si ritrovano così a organizzare una serie di colpi impossibili, incrociando le armi con un'agente dell'Europol e un super ladro professionista francese. Ocean's Twelve è, tanto quanto il primo episodio, una "scusa" utilizzata da Soderbergh e dal suo gruppetto di amici per divertirsi assieme cazzeggiando e giocherellando col cinema di genere.

Ancora una volta è tutto un gioco di battutine, inside joke, metareferenzialità e prese in giro. Di nuovo ogni attore recita nel ruolo di se stesso (a parte Andy Garcia, l'unico convinto di dover interpretare un personaggio), e addirittura, stavolta, questa specie di realismo al contrario fa da pretesto per una delle gag più riuscite. Uno sterile spettacolo di regia ricercata, scenografie lucide e leccate, costumi eleganti e musiche d'alto lignaggio. Ti dà di gomito e ammicca, cerca la tua complicità e sorride malizioso. Se stai al gioco, probabilmente, il divertimento è assicurato. Altrimenti, per quanto vuote, son comunque un paio d'ore piacevoli, ritmate e tremendamente ben confezionate.

25.2.07

Vero come la finzione


Stranger Than Fiction (USA, 2006)
di Marc Forster
con Will Ferrell, Maggie Gyllenhaal, Dustin Hoffman, Emma Thompson, Queen Latifah

Harold Crick è un uomo triste e solitario, che vive una mediocre esistenza da agente delle tasse, fissato coi numeri, adagiato sulle sue monotone abitudini. Una mattina, mentre si lava i denti, sente una voce di donna nella sua testa. Una voce che non parla con lui, ma parla di lui. La sua voce narrante, che racconta della sua vita, dei suoi incontri, dei suoi sentimenti. E della sua imminente morte. La voce è quella di Kay Eiffel, una famosa scrittrice che sta cercando di ultimare il suo nuovo romanzo e che non sa di stare decidendo, con la sua macchina da scrivere, della vita di un uomo.

Da queste intriganti premesse, Marc Forster trae una deliziosa commedia agrodolce, romantica e sognante, graziata da attori meravigliosi e da un Will Ferrell che - udite udite - tiene la scena anche meglio di quando fa lo scemo urlando tutto il tempo. La sceneggiatura, firmata da un pressoché esordiente di nome Zach Helm, parte da un'idea divertente e affascinante che, oltre a raccontare una bella storia, propone temi di peso. Forse non vi affonda i denti più di tanto, ma offre comunque l'occasione di riflettere sul libero arbitrio e sul senso di responsabilità.

Ma soprattutto Stranger than Fiction (traduzione letterale, proprio) è un bel film. Curato nei dettagli, nelle piccole cose, nelle belle scenografie e nelle invenzioni visive, originali ed efficaci, mai ostentate o invadenti. È un film fatto di dialoghi e caratteri, di bravi interpreti e di belle atmosfere. Pacato e adorabile, dolce, magico e commovente. Ce ne fossero!

19.2.07

Viva Las Vegas


Il 24 di gennaio, come chi segue questo blog potrebbe ricordare, mi sono di nuovo imbarcato su un volo per gli States, questa volta diretto a Las Vegas. Ero in viaggio assieme ad Alessandro di Edizioni Master (che ringrazio per alcune delle foto che userò in questo post) e ad Alberto di Leader. Il press tour era legato al Midway's Gamers' Day, un evento annuale con cui Midway mostra all'universo i suoi nuovi giochi. Evento che ha occupato pomeriggio e sera di giovedì 25 gennaio, lasciandoci quindi ampi margini di cazzeggio. Margini che vado ora ad illustrare per mezzo della mia canonica logorrea.

Il viaggio (Milano-Atlanta, Atlanta-Vegas) viene affrontato tramite l'americanissima Delta Airlines, una compagnia che mi ha dato l'idea di essere abbastanza squanfida. A parte il volo intercontinentale con i sedili stretti e gli schermetti centralizzati (ognuno con una diversa "deformità" di colori), l'aereo che ci ha portati da Atlanta a Las Vegas dava quell'inconfondibile sensazione d'interregionale estivo. Saturo di persone, puzzolente, scomodo e con seduto al mio fianco un tizio che ha mangiato schifezze e puttanate dal decollo all'atterraggio, ininterrottamente, accompagnandole però con una lunga serie di diet coke (ah, beh). Comunque, nel tardo pomeriggio siamo arrivati a destinazione e, dopo aver sbrigato il recupero bagali in aereoporto, ci siamo diretti all'albergo.

L'albergo era il The Hotel, vale a dire uno dei due hotel del complesso Mandalay Bay Resort, che include due palazzoni-albergo e un'area sotterranea con casinò, negozi, ristoranti e chissà che altro. La serata, dopo una breve sosta di relax in camera, viene dedicata a un'esplorazione del Mandalay Bay e alle pappe. Ci inoltriamo quindi nel casinò: una lunga distesa di slot machine, roulette e tavoli da black jack, salette a parte per gli scommettitori più facoltosi e per giochi particolari, l'area poker (Texas Hold'Em, ovviamente) e l'area scommesse sportive. Da notare che l'intero casinò è zona fumatori, ma nell'area poker è vietato fumare. Spettacolare l'area dedicata alle scommesse, con un enorme muro tappezzato di schermi che trasmettono qualsiasi disciplina sportiva, una marea di tabelloni con le varie quote e tanti bei seggiolini dotati anche di porta bibite. E ovviamente i vacconi.

Ogni casinò, infatti, ha i suoi vacconi, che servono da bere e gironzolano addobbati a tema. Ma del resto i vacconi sono fra i temi principali di Las Vegas. Comunque, vagando fra locali (da notare la House of Blues, dove si esibiranno qualche giorno dopo gli Slayer), esibizioni live e ristoranti di tutti i tipi, decidiamo di abbandonarci alle meraviglie di un sushi bar dalla discreta qualità. Una volta rifocillati, ci rendiamo conto che portarsi sulle spalle circa trenta ore di veglia, un viaggio intercontinentale e - perlomeno nel mio caso - due sole ore di sonno negli ultimi due giorni, beh, non è proprio il massimo. Andiamo quindi a morire in camera.



Il secondo giorno, giovedì, è il giorno in cui si sgobba. Ma solo a partire dal primo pomeriggio. Dedichiamo quindi la mattinata all'esplorazione della città, o perlomeno dell'area più turistica. La Strip, insomma, vale a dire la parte di Las Vegas Boulevard in cui si concentrano la maggior parte degli alberghi più lussuosi, caratteristici e cazzari della città (e dove ad ogni angolo incontri un tizio che ti smolla volantini e bigliettini ritraenti donne vogliose). Il Mandalay, che in sostanza è il primo albergo della fila, fa parte di un complesso costituito da altri due alberghi, il Luxor e l'Excalibur. Questo spettacolare tris è interamente visitabile senza uscire all'aria aperta, grazie a un tunnel di collegamento sotterraneo carico di negozi e ristoranti. Non solo, c'è anche un servizio gratuito di tram sopraelevato, disponibile in due versioni: quello direttissimo fra Mandalay ed Excalibur e quello che, bontà sua, si concede la fermata al Luxor.

Comunque, gironzoliamo a piedi, affrontando la passeggiata sul marciapiede e dirigendoci verso nord. Passiamo davanti al Luxor, che fra sfinge, piramide e obelisco lascia sempre perplessi, e, una volta superato l'Excalibur (praticamente l'albergo di Mago Merlino), arriviamo a questo incrocio, su cui fanno capolino l'allucinante New York New York (altra foto) e l'MGM. Da notare che l'incrocio non può essere attraversato al "piano terra", ma richiede l'utilizzo dei ponti pedonali (ovviamente dotati di ascensore e scale mobili). Qui, dopo essere passati sotto alla PSP gigante, costeggiamo una serie di negozi e negozietti, che vanno dal classico tugurio di souvenir agli "store" ufficiali di Coca Cola e M & M's. Proprio in quest'ultimo ci infiliamo e, dopo esserci fatti scattare la foto assieme ai caramelloni, ne esploriamo i vari piani.

In sostanza è un grosso baraccone, pieno di souvenir e cazzatine marchiate M & M's e con qualche trovata simpatica, come il muro tappezzato dalle riproduzioni delle varie forme dei confettini negli anni, o i manifesti delle parodie di film famosi. Sul piano più alto c'è una macchina NASCAR sponsorizzatissima: per la prima volta ne osservo da vicino l'interno. Prima di uscire esploriamo una sorta di mini museo delle M & M's, saturo di scemenze e di robe per bambini anche sfiziose, tipo questo tunnel rotante da mal di testa.

Una volta usciti, proseguiamo lungo la Strip, passando davanti a una specie di baraccopoli che mette assieme autonoleggi, negozietti di scemenze e poco altro. Apice della zona, l'Harley Davidson Cafe. Proseguendo si passa davanti a questa curiosa zona satura di bancarelle (che ovviamente vendono una serie di articoli raffinati e di buon gusto) e si arriva poi a Parigi, giusto davanti al Ceasar's Palace. Sì, Parigi, con l'Arco di trionfo (e la pubblicità di The Producers con David Hasselhoff) e la Torre Eiffel arrampicata sopra a un ristorante, con davanti il fontanazzo. Qui si conclude, nella sostanza, la passeggiata mattutina, dato che si riparte alla volta dell'albergo e alla ricerca di un ristorante.

Finiamo per infilarci nell'Aladdin, un albergone il cui tema non credo vada spiegato. All'interno, nella sezione delle cibarie, troviamo un fast food hawaiano specializzato in cheeseburger. Io mi gusto una roba enorme, accompagnata da birra, anch'essa hawaiana. Tutto ottimo, bisogna dirlo. Nella piacevole chiacchierata mangereccia a un certo punto si inseriscono gli avventori del tavolo a fianco, uno dei quali è un immigrato dall'Italia del sud che sembra uscito per direttissima da I soprano. Esaurite le pappe, ce ne torniamo all'albergo e ci prepariamo per la spedizione all'Hard Rock Hotel, dove si passano il pomeriggio e la prima serata a provare videogiochi, fare interviste e mangiare Sushi e altro. Nel contesto faccio conoscenza con Elisa e il suo futuro marito Sterling, personaggi deliziosi e simpaticissimi che ci accompagneranno nelle serate a venire (Sterling, fra l'altro, spenderà parole d'odio per la Delta Airlines, confermando la nostra brutta impressione).

Dopodiché si torna all'albergo, con l'idea di rilassarsi un'oretta per poi uscire e girare per le meraviglie notturne di Vegas. In realtà l'ora abbondante passata sul divano davanti alla TV sarà per me micidiale e mi farà saltare totalmente l'uscita. Il giorno dopo mi racconteranno di un Alberto metodico e "sfortunatello" al tavolo della roulette: in pratica, si presenta con un budget da cento dollari e comincia a puntarne cinque per volta sul 19. Che non esce mai. Nel momento in cui rimane con venti dollari, li mette tutti sul 19. Subito prima che la pallina si fermi, però, sposta le fiche da un'altra parte. Chissà che numero uscirà?



La mattina del 26 gennaio mi incontro col solo Alessandro, dato che Alberto proprio non ce la fa. Decidiamo di farci un altro giro per la Strip, andando a lasciare il canonico obolo nel negozio di souvenir solo visitato la mattina prima e proseguendo lungo la via fino al Venetian. Ci avviamo a piedi lungo il tunnel che collega il Mandalay con il Luxor e, una volta giunti in Egitto, ci spariamo una bella colazioncina da Starbucks. Dopodiché, pur facendo un po' fatica a trovare l'uscita, zompiamo sul tram e ci facciamo placidamente trasportare fino all'Excalibur, da dove iniziamo la passeggiata.

Una volta sbrigata la pratica souvenir (per me un paio di calamite, una maglietta e una felpa), ci infiliamo nel negozio Coca Cola, che il giorno prima avevamo trascurato. Anche qui, si tratta sostanzialmente di una gran marea di gadget e oggetti più o meno (in)utili "firmati" e accompagnati da un po' di arredamento a tema. Proseguiamo la marcia, passando davanti al Ceasar's Palace, al suo Colosseo e al The Mirage, per poi arrivare a destinazione.


Il Venetian, madonna santa, che spettacolo allucinante. Lascio parlare le immagini, via.









A questo punto la passeggiata è giunta al termine: zompiamo sulla monorotaia che scorre parallela a tutta la Strip (cinque dollari a corsa, quindici per il biglietto giornaliero) e ce ne torniamo in albergo, dove incontriamo Alberto. Dopo qualche peregrinazione disperata, si decide di andare a mangiare al buffet del Luxor. Praticamente tutti (o quasì) gli alberghi/casinò "lussuosi" di Vegas, infatti, hanno una sezione buffet, dove è possibile pagare un fisso e mangiare come disperati. La qualità non è proprio il massimo, anche se il pollo caramellato non si butta. Dopo il pasto e dopo la foto di rito in braccio al faraone, andiamo a farci un giro nell'acquario dedicato ai predatori acquatici (squali, piranha, coccodrilli, meduse giganti) che si trova nel Mandalay, giusto di fianco alla chiesetta per matrimoni lampo.

Dopodiché si torna in camera a svernare in attesa dell'uscita serale. Io ne approfitto per mettermi un po' al lavoro sull'articolo per PSM e per seguire un po' l'NBA in TV (praticamente quando sono in America è l'unica roba che guardo in TV, anche perché ce n'è un po' a tutte le ore). L'uscita serale, in compagnia di Elisa e Sterling, ci vede diretti all'hotel di Hooters, dove ci concediamo una cenetta a base di porcate. Io, in realtà, mi limito a mangiucchiare dei cheese stick abbastanza sfiziosi, e ad assaggiare le ali di pollo ordinate da Sterling (che, ci spiega, a quanto pare sono il piatto forte del ristorante). Per chi non lo sapesse, Hooters si può velocemente descrivere come "una catena di locali in cui si viene serviti dalle tettone".

Una volta concluso il lauto pasto, prendiamo un taxi e ci dirigiamo al Venetian, che visitiamo questa volta anche all'interno, che incredibilmente è ancora più allucinante dell'esterno. I vicoli e i canali di Venezia, riprodotti in qualche modo al chiuso, in una serie di locali costantemente illuminati a giorno. Il tutto costellato di negozi, ristoranti e insegne imbarazzanti. Il giretto è abbastanza breve, perché il posto sta chiudendo e veniamo gentilmente allontanati. Al che si torna in albergo e io, senza farmi tanti problemi, vado a morire in camera.



Dato che raggiungere il Grand Canyon ci sembra un po' troppo uno sbattimento, Sabato 27 si decide di dedicarlo a una gitarella nella Death Valley. Io, comunque, mi sveglio sul prestino, per finre l'articolo da spedire, e ne approfitto per viziarmi con una bella colazioncina in camera: the caldo e pancake accompagnati da banane, fragole, panna e un altro po' di roba a caso, ovviamente tutto innaffiato di sciroppo. Dopo l'incontro con Alessandro e Alberto, ci si avvia alla ricerca di un autonoleggio. Quello del Luxor ha finito le macchine e decidiamo quindi di buttarci sulla Strip. Passiamo così sul ponte del New York New York e, per l'ennesima volta, davanti a questa fila di negozi. Tentiamo la carta del noleggio un po' fetido alla baraccopoli, ma otteniamo solo un'oretta persa in coda. Quando le speranze ci stanno abbandonando, becchiamo un baracchino davanti alle bancarelle squanfide poco più avanti e otteniamo la canonica chevrolet.

Sbrighiamo le pratiche, recuperiamo la macchina, raggiungiamo l'albergo per recuperare un paio di cosette e imbocchiamo la strada (ciascuna di queste cose non senza problemi): sono le 11:00 e siamo in viaggio verso il deserto. Dopo un brevissimo tragitto lungo la Interstate 15, ne usciamo e imbocchiamo la Highway 160 (altrimenti nota come Blue Diamond Route), che permette di accorciare notevolmente il percorso rispetto alla I-15 grazie a un "taglio" fra le montagne. In più, questa strada passa, seppur in maniera non troppo approfondita, per il Red Rock Canyon, che era una possibile meta valutata in ottica "non ci sbattiamo troppo".

Allontanarsi da Vegas, comunque, è abbastanza deprimente, per uno scenario, quello nelle immediate vicinanze della città, piuttosto squallido. Cantieri, discariche, agglomerati di casette e casacce, zone via via sempre più solitarie e degradate... non proprio una gran bella vista. Per fortuna, a un certo punto scompaiono i segni di vita e ci si ritrova in mezzo al nulla. Cominciare a ritrovarsi di fronte le interminabili strade desertiche che si vedono sempre nei film è davvero emozionante, specie poi quando vedi la stessa roba attraverso il parabrezza e dentro lo specchietto. Dopo un viaggio non particolarmente lungo, si giunge a Pahrump, da noi immediatamente ribattezzata Paripampù.

Paripampù, oltre ad essere una cittadina dall'apparenza abbastanza triste, secondo la Rough Guide rappresenta anche l'ultimo avamposto in cui è possibile procurarsi cibo e acqua. Ci concediamo quindi un pasto da Burger King (eh, non è che si sia mangiata proprio alta cucina, in 'sto viaggio) e facciamo un salto veloce da Smith's, un supermercato in cui recuperiamo un paio di bottiglie d'acqua. Dopodiché si rizompa in macchina e ci si ributta lungo la strada, in direzione Death Valley. Ovviamente cominciamo anche a fare qualche tappa, per rilassarci, goderci il paesaggio e scattare le canoniche foto ricordo. Un po' le ho messe qua, un po' le metto qui sotto.






Proseguendo in tutta calma, arriviamo alla prima tappa "obbligatoria", vale a dire Zabriskie Point, un punto d'osservazione da cui si può gettare uno sguardo su una serie di montagne a dir poco curiose. Il panorama è mozzafiato e già da solo, francamente, vale la gita. Dopo un po' di scazzeggio, noto un tizio che si avventura lungo un sentiero e decido di seguirlo per un po', scendendo verso il basso. Mentre il tipo svanisce all'orizzonte (la foto è "un filo" sovraesposta, ma rende l'idea), io mi fermo abbastanza in fretta, anche perché sento alle mie spalle le parole "A Zabriskie, hai rotto er cazzo". Prima di tornare verso la macchina, comunque, mi faccio ritrarre dalla distanza.

La marcia a quattro ruote riprende e ci porta fino alla zona del Furnace Creek Inn, dove c'è una specie di incrocio (notare la vegetazione in lontananza sulla destra) che, in sostanza, costringe a scegliere se dirigersi verso nord o sud. La giornata è breve e decidiamo quindi di buttarci a sud, dove la prima tappa è l'ingresso del Golden Canyon, che però decidiamo di non esplorare. Fatta una foto al sentiero, torniamo in macchina e proseguiamo lungo la strada, decidendo poi di imboccare l'Artist's Drive.

L'Artist's Drive è una strada a senso unico, in direzione nord, che si snoda fra monti, saliscendi, panorami e altro. A metà percorso c'è un'area di sosta, chiamata Artist's Palette, dove si trovano delle pietre vulcaniche colorate in svariati modi diversi a causa dei minerali che le compongono. Passiamo così un po' di tempo a cazzeggiare, ammirare il panorama e fare foto a qualsiasi cosa, corvazzi compresi.






Dopo la pausa rilassante, concludiamo il passaggio nella Artist's Drive tallonando un gruppo di motociclisti e torniamo sulla strada principale, che poco più avanti conduce al Devil's Golf Course, una specie di sterminato giardino di creste e pinnacoli fatti di sale cristallizzato, testimonianza del fatto che, un paio di millenni fa, questa zona era piena di laghi. Qui ci fermiamo parecchio a osservare questo spettacolo incredibile, a fare foto e, ehm, a concederci una bella pisciata nel deserto. Son soddisfazioni che vale la pena togliersi, una volta nella vita!

Abbandonato il campo da golf, proseguiamo verso sud, fino a raggiungere Badwater Basin, uno stagno così chiamato a causa del cattivo sapore dell'acqua. La targa presente sul posto spiega che il nome venne dato da un pellegrino che non riuscì a far bere l'acqua nemmeno al suo mulo. Un piccolo molo conduce a una stradina di sei chilometri abbondanti che porta fino al punto più basso dell'emisfero occidentale (circa 86 metri sotto il livello del mare). Dato che si tratta di circa un metro di differenza rispetto agli 85 segnalati dal cartello, decidiamo che non ne vale la pena. Simpatico, sul costone di roccia, il segnale che indica il livello del mare.

Da qui proseguiamo verso sud, lungo una strada che piano piano diventa sempre meno curata e più rozza, ma in ogni caso non smette mai di essere asfaltata e tranquillamente praticabile. Scende la sera e iniziamo a sentirci veramente avvolti dal nulla più completo. Dopo un bel tratto di strada, svoltiamo verso est e imbocchiamo il Jubilee Pass, che ci porta a scollinare e a tornare nel lato più orientale della Death Valley. Proseguendo, raggiungiamo i margini del paesino di Shoshone e ci fermiamo a cenare al Cafe Crowbar, un posto simpaticissimo e molto ammerigano (anche se probabilmente fin troppo forzato a uso e consumo dei turisti).

All'interno, ridacchiando sulla bacheca piena di messaggi scritti su fogliettini (per lo più da italiani), ci piazziamo al bancone (notare la faccia da moribondo) e ci gustiamo una bella cenetta. Io azzanno un bisteccone con patate, mentre i miei compagni di viaggio si buttano sul chili. Da sottolineare la coca cola servita dentro i barattoli di vetro della conserva. A cena conclusa, facciamo un altro paio di foto stupide, assaliamo il negozio di souvenir attaccato al benzinaio e ci rimettiamo in viaggio. Qui Alberto si rende conto di stare covando un mezzo febbrone.

Il viaggio di ritorno verso Vegas ci vede tornare verso Paripampù, nel buio più completo, col cielo tappezzato di stelle, ma anche con un'inquietante scia luminosa davanti agli occhi. Incredibile, le luci di Vegas si vedono distintamente emergere al di là delle montagne. E, mano a mano che ci si avvicina, si comincia pure a notare il faro di luce che parte dalla punta del Luxor (e da noi ribattezzato Stargate). Roba da pazzi. Fra l'altro, la strada che conduce verso Vegas è totalmente priva d'illuminazione, se si escludono i cartelli pubblicitari, che sono talmente illuminati che praticamente fanno da lampioni.

Mentre i miei due compagni oscillano fra questo e l'altro mondo, conduco la macchina ascoltando una radio locale che trasmette solo rock nostalgico. Sto cominciando a pagare la fatica di aver guidato tutto il giorno, ma conduco comunque la truppa a destinazione. Il rientro in albergo mi permette di regalarmi una fantastica combo: prima mi sdoccio per bene, poi mi immergo nell'enorme vasca da bagno, il tutto gustandomi una partita in TV. Dopodiché si esce, riprendendo la macchina e seguendo le pronte informazioni di Sterling per raggiungere Downtown.

Downtown, praticamente, è la parte più vecchia e caratteristica di Vegas, quella con il Golden Nugget, l'albergo con l'insegna animata del cowboy all'esterno. Sicuramente meno spettacolare rispetto alla Strip, ha comunque il suo fascino, anche perché ricorda in maniera un po' perversa le vie coperte e piene di negozi che si trovano nelle città giapponesi. Dopo esserci fatti una bella passeggiata in zona, decidiamo di tornare in albergo a collassare. Del resto, il giorno dopo ci aspetta una sveglia intorno alle cinque.

Il ritorno a casa merita un breve resoconto. Sorvoliamo pure sulle difficoltà - tutto sommato neanche esagerate, ma penalizzate dalle condizioni tremende in cui si trovava Alberto - nel trovare la sede dell'autonoleggio in cui dovevamo riportare la macchina. Vale fra l'altro la pena di notare come, guidando di primissimo mattino, quando è in realtà ancora notte, ho la prima occasione di osservare per davvero la Strip in notturna, che effettivamente è molto più spettacolare.

L'arrivo in aereoporto è tutto sommato agevole, il check-in nella norma e la colazione (a base di waffle, frutta, sciroppo, the e porcame vario) è piacevole. I problemi sorgono una volta in viaggio: appena partiti, una signora viene colta da attacco di cuore. Scatta subito la scena "C'è un medico a bordo?" e si alzano in quattro. La situazione sembra risolta, ma il dramma vero si presenta dopo un'ora e mezza abbondante.

Mentre sto guardando fuori dal finestrino e penso "Ma che belle montagne!", l'aereo comincia a curvare. A un certo punto mi rendo conto che sta curvando davvero troppo, che sta facendo un'inversione a U. E allora capisco: si atterra. Il posto è Albuquerque, New Mexico, e la sosta si protrae per un paio d'ore circa. La signora, infatti, viene scaricata abbastanza in fretta, ma ci tocca aspettare che venga recuperato un nuovo kit medico, con cui sostituire quello utilizzato in volo. E ci vuole un bel po' di tempo. Questo, ovviamente, ci porta a perdere la coincidenza ad Atlanta e ci ritroviamo così a vagare per l'aereoporto assieme a un altro paio di italiani. Prendo in mano la situazione (anche perché Alberto ormai è moribondo) e vado in giro a chiedere informazioni.

Finiamo al banco della Delta, dove le operazioni di "dirottamento" su un altro volo si protraggono oltre il tollerabile, pare per colpa degli addetti Air France che rompono i coglioni (ma che strano). Ne usciamo comunque vivi, anche se moribondi. Mollo ad Alberto un Synflex per addolcirgli il mal di testa e, mentre si aspetta la partenza dell'aereo, recupero un panino neanche troppo rancido. Finalmente si decolla, diretti però a Parigi, invece che a Milano. Il viaggio intercontinentale, perlomeno, è più comodo che sui voli Delta, anche se, considerando che passo quasi tutto il tempo dormendo, non è che ne goda più di tanto. E nel frattempo inizio a tossire pure io.

La tappa a Parigi mi fa venire l'orticaria, anche perché quell'aereoporto lo odio e negli ultimi tempi ci sono passato di continuo. Il volo verso Milano è un'agonia interminabile e all'arrivo, dopo aver salutato Alberto, non perdo neanche tempo illudendomi di veder spuntare la mia borsa: vado direttamente allo sportello per i bagagli smarriti (mi sarà comunque recapitata a casa il giorno dopo). Malpensa Express, metropolitana, casa, doccia, relax. E febbre. A 39, per ventiquattro ore. Poi, con calma, nell'arco di qualche giorno, mi riprenderò. Ma vabbé, dai, ne è valsa la pena. E per ribadirlo, qui di seguito piazzo un altro po' delle foto passatemi da Alessandro, scattate con una fotocamera certo migliore della mia.



















13.2.07

R-Type Final

R-Type Final (Irem, 2003)
sviluppato da Irem


Sfondo nero come la pece. Una piccola astronave si muove lentamente, increspando col suo passaggio l'oleosa macchia scura che occupa tutto lo schermo. Ogni tanto il buio viene squarciato da una luce, che illumina le silhouette di due enormi figure umane intente in pratiche sessuali. Intanto, l'astronave affronta dei bulbi oculari giganti, che si dispongono a formare costruzioni labirintiche, stretti corridoi, angusti pertugi. E una musica angosciante completa l'opera, mettendomi addosso un'inquietudine e un senso di fastidio che, francamente, mai avrei pensato di poter provare davanti a uno sparatutto bidimensionale di stampo classico.

R-Type Final, ennesimo capitolo di una saga nata addirittura vent'anni fa, si pone come compendio definitivo per tutti gli appassionati della serie, proponendo la summa tematica e stilistica dei suoi vent'anni e una (quasi) interminabile collezione di "roba" tratta dai vari episodi. Ma è un gioco in grado di offrire qualcosina in più del semplice gusto per il collezionismo, anche se richiede un minimo di fiducia e applicazione per essere apprezzato fino in fondo.

"Moscio", infatti, è l'inevitabile termine che colpisce il cervello di chiunque affronti le fasi iniziali di R-Type Final: ritmi blandi, pochi nemici, nessun momento realmente carico di tensione e, soprattutto, un accompagnamento musicale da latte alle ginocchia. Dove sono finite le schitarrate esaltanti e le frenetiche discese nel delirio di un Thunderforce IV o un Gates of Thunder? Oddio, non che fosse troppo lecito attendersele, dato che R-Type ha sempre avuto quell'aria un po' spocchiosetta e snob di chi non vuole sporcarsi con le tamarrate, però un minimo di verve in più non avrebbe guastato.

Ma tenere duro, dare fiducia a R-Type Final e andare avanti significa scoprire un insospettabile gioiellino, che cresce sulla distanza, lentamente e inesorabilmente. La riproposizione dell'immensa astronave nemica che, da sola, occupa un intero livello e che, da sempre, rappresenta uno dei simboli di R-Type. Il lungo viaggio nell'iperspazio, fatto di immagini e nemici deformati con un effetto di distorsione visiva - la cui intensità varia in base alla velocità scelta per la navetta - che rende semplicemente delirante l'intero quinto stage. Il tuffo nel disgusto delle fasi finali, che vedono un'applicazione all'insegna del putrido e del marcio di tutto quel design "tecnorganico" che ha sempre caratterizzato gli alieni Bydo.

E ancora, l'interminabile collezione di navette da sbloccare e fra cui è possibile scegliere il proprio veicolo di morte e distruzione. La possibilità di affrontare per vie diverse le stesse ambientazioni, decidendo la propria strada tramite il combattimento. E, addirittura, il rischio di finire sconfitti e assimilati, ritrovandosi a combattere dal lato sbagliato della barricata, osservando il proprio passato che scorre al fianco mentre si procede invasi dalla biologia aliena.

Non sono mai stato un giocatore da hi-score e, a parte rare eccezioni, ho sempre visto i videogiochi come qualcosa da esplorare fino in fondo e di cui m'interessava "vedere la fine". In sala giochi andavo avanti a colpi di monetine e non cercavo di finire i livelli senza perdere vite. Per questo amo gli shoot 'em up in grado di offrirmi qualcosa sul piano narrativo, capaci di stupirmi per atmosfera, ambientazione, colonna sonora, o magari con geniali trovate in termini di gioco. E per questo trovo abbastanza noioso tutto quel filone di sparatutto bidimensionali dall'estetica piatta e standardizzata, dal fascino grezzo e banale, la cui unica - e nobilissima, per carità - ragion d'essere sta nella ricerca del punteggio massimo e della partita perfetta.

E per questo non so dire se R-Type Final possa essere un bel gioco per i veri appassionati di sparatutto "vecchio stile". Posso però dire che mi ha dato delle emozioni, anche forti. E non mi sembra poco.

11.2.07

L'amore in gioco


Fever Pitch (USA, 2005)
di Bobby e Peter Farrelly
con Jimmy Fallon, Drew Barrymore

Ma che piacevole sorpresa, questo riciclarsi dei fratelli della sborra Bobby e Peter Farrelly nel ruolo di registi da commediola politically correct. L'amore in gioco si basa sul libro Febbre a 90° di Nick Hornby, già ispiratore di un omonimo film britannico. Ovviamente, il titolo originale di tutte e tre le opere è lo stesso: Fever Pitch. Hornby parlava di calcio, i Farrelly hanno spostato l'obiettivo sul baseball, che comunque per gli americani è praticamente come il calcio per noi. Anzi di più. E del resto i tifosi dei Red Sox sono come gli interisti (anzi di più).

In realtà più che di sport si parla di sentimenti, del modo tremendamente diverso in cui uomini e donne, spesso, si rapportano alle cose e alla vita, e sì, anche dell'infantile, giocoso e irresistibile amore per la propria squadra. Il tutto, va detto, senza sconfinare praticamente mai nella retorica e nel pietoso romanticismo, ma anzi mantenendosi in perfetto equilibrio sull'orlo del baratro. E schivando la compiacente, ammiccante, insopportabile furbizia di About a Boy.

Ben è un ragazzo gentile, simpatico, autoironico e divertente. Fa il professore, è single e, portafogli vuoto a parte, rappresenta un partito perfetto. Lindsey è una super manager, vincente, iperattiva, bella. Ed è pure simpatica. Incontra Ben, inizia a frequentarlo, se ne innamora. Tutto sembra fantastico, ma il dramma è dietro l'angolo: Ben è un tifoso dei Boston Red Sox. Ed è un tifoso da abbonamento stagionale tutti gli anni, fin da bambino. I vicini di posto allo stadio sono di famiglia, le partite - specie se c'è la sfida con gli Yankees - sono appuntamenti irrinunciabili.

E, non bastasse questo, stiamo parlando dei Red Sox. La squadra afflitta dalla Maledizione del Bambino, che da oltre ottant'anni massacra impietosamente il cuore dei tifosi di Boston. Nel 1920, infatti, Babe Ruth, eroe di tre titoli vinti dai "Bosox", venne ceduto agli Yankees per un capriccio del proprietario e maledisse letteralmente la sua ex squadra. I pigiami di New York, che fino a quel momento non avevano mai giocato una finale, da allora a oggi hanno partecipato a trentanove edizioni delle World Series e conquistato ventisei titoli. I Red Sox hanno invece dato il via a decenni su decenni di tremende sconfitte, fatte di crolli nelle gare decisive e allucinanti rimonte subite.

Viste le premesse è facile immaginare come, nonostante inizialmente la vita "sportiva" di Ben e i duri impegni lavorativi di Lindsey sembrino potersi conciliare, alla lunga arriverà la crisi. Ma non mancherà il lieto fine, che del resto i Farrelly non ci hanno mai negato anche quando facevano gli scorrettissimi. Lieto fine, fra l'altro, davvero a tutto tondo: la clamorosa rimonta da 0-3 dei Red Sox sugli Yankees e la successiva vittoria nelle World Series raccontate nel finale, infatti, sono avvenute nel 2005, a riprese ancora in corso, costringendo i due registi a riscrivere parte della sceneggiatura per includerla. Anvedi gli scherzi del destino!

8.2.07

Scoop



Scoop (UK/USA, 2006)
di Woody Allen
con Scarlett Johansson, Woody Allen, Hugh Jackman

Madonna, ma che palle, si ricomincia? Siccome hai centrato Match Point adesso riattacchi a scagazzare fuori filmetti insipidi per un decennio buono? Che è, 'sta roba? A che serve? Che me ne dovrei fare? Ancora a travestire attori da te stesso, stai? Per di più in un film nel quale reciti anche tu? Ma non ti rendi conto di quanto scassi i coglioni vederci doppio per un'ora e mezza? Senza ridere. Senza che ci sia un qualsiasi intreccio. Non dico un intreccio giallo, eh, mi basterebbe un intreccio.

Un vecchio stronzo e una cretina lanciati allo sbaraglio contro un serial killer. Forse. O forse no. Nel dubbio, novanta minuti di gag insulse, a raccontare di questi due poveretti che inseguono l'occasione della vita su consiglio di un fantasma. Avvenimenti telefonati mezz'ora prima, tormentoni che si trascinano stancamente, personaggi piatti e monodimensionali... l'unica ragione di vita per questo film sta nella scena della piscina, con Hugh Jackman e Scarlett Johansson in costume da bagno. Oltretutto lei indossa il costume intero. E neanche mi piace. Fastidio.

7.2.07

The Last Kiss


The Last Kiss (USA, 2006)
di Tony Goldwyn
con Zach Braff, Jacinda Barrett, Rachel Bilson, Casey Affleck

Remake americano de L'ultimo bacio di Gabriele Muccino, The Last Kiss racconta, per quel che mi è dato ricordare, esattamente la stessa storia del film originale. La stessa gente insopportabile che litiga, la stessa gente insopportabile che si mette le corna, la stessa gente insopportabile in crisi di coppia, la stessa gente insopportabile con gli stessi insopportabili piani di fuga dalla mediocrità.

Manca Stefano Accorsi ed è per me un bene, dato che Muccino - che se ha una dote è la bravura nel dirigere gli attori - è riuscito a farmi piacere perfino Taricone e la Bellucci, ma mister Maxibon proprio no. Mancano i virtuosismi di regia e i dialoghi da diario di quindicenne, che davano al film originale una sua particolare identità e, tutto sommato, rappresentano un po' la firma del Muccino italiano. La loro assenza non è compensata in alcun modo, dato che Tony Goldwyn, diciamocelo, è un regista piatto e banale.

E soprattutto manca, in una specie di ribaltone che, in buona sostanza, nega l'intero senso del film originale e un po' tutta la poetica di Muccino, l'appendice finale con Giovanna Mezzogiorno che fa jogging. E cosa rimane? Un filmetto, una commediola mediocre priva di nerbo e di fascino, che si lascia guardare grazie a qualche buon interprete e a una sceneggiatura abbastanza brillante.

Non sono un fan di Muccino e non sono un fan de L'ultimo bacio, ma riconosco doti e meriti ad entrambi. Qui, però, non ne vedo. Un remake inutile se ce n'è uno.

5.2.07

Imbattibile

Invincible (USA, 2006)
di Ericson Core
con Mark Wahlberg, Greg Kinnear, Elizabeth Banks

Vincent Francis Papale è un figlio della Pennsylvania, nato nel lontano 1946 e graziato da doti fisiche non da poco, che gli permettono di condurre un'eccellente carriera sportiva da liceale e studente universitario. Nel 1974 Vince lavora come barista e supplente al liceo di Interboro, ma trova un posto da Wide Receiver nei Philadelphia Bell della World Football League e, grazie a due ottime stagioni, si conquista l'occasione di un provino per il neo appuntato coach dei perdentissimi Philadelphia Eagles. Dick Vermeil gradisce, approva e assolda quello che, alla bellezza di trent'anni, è il rookie - senza esperienza di college football - più vecchio nella storia della NFL.

Papale gioca quarantuno partite in tre stagioni, dal 1976 al 1978. Tre anni durante i quali finisce per essere eletto capitano degli special team da quegli stessi compagni che lo chiamano amichevolmente Rocky (per coincidenza il 1976 è anche l'anno del sogno americano di Sylvester Stallone). La sua carriera si conclude per infortunio nel 1979, un anno prima del viaggio fallimentare al Superbowl dei suoi Eagles. Nel 1980, infatti, Philadelphia arriverà in finale in tutti e quattro i principali sport americani, anche se solo i Phillies conquisteranno il titolo (l'unico della loro storia).

Invincible racconta in sostanza una fetta del 1976 di Vince Papale. Romanza e stiracchia un po' le cose, svaluta le prestazioni giovanili del protagonista e ne cancella la carriera pre-Eagles, col risultato di gonfiare ulteriormente i già mitologici toni della vicenda. Ma non si tratta di un gran danno, perché tanto, obiettivamente, se ne possono accorgere giusto i tifosissimi e chi va a consultare Wikipedia. Il "problema", casomai, sono i toni del racconto, melodrammatici, pomposi e moralistici come da tradizione di film sportivo (figuriamoci di film sportivo Disney). Ma a conti fatti sono le caratteristiche del genere, quelle che ti devi aspettare e a cui devi essere preparato. Lode a quei (rari) film sportivi che non si perdono più di tanto nella retorica, ma non si può certo fare una colpa a questo dell'essersi voluto attenere alle regole.

Anzi, Invincible, pur non risparmiando allo spettatore uno stereotipo che sia uno, si permette di mostrare scelte di regia interessanti, con un'entusiasmante messa in scena del primo match "ufficiale" di Papale. Ericson Core mostra la partita dal punto di vista del protagonista, lo rincorre nell'affannosa corsa verso un placcaggio, lo accompagna all'attesa solitara sul fondo della panchina e lì lo abbandona per trasportarci fino alla linea dello scrimmage. Per il resto, le armi sono le solite, con un abuso del rallenty totalmente privo di vergogna e una ricostruzione "fantasiosa" delle partite raccontate. A dare solidità al tutto ci pensano le come al solito ottime interpretazioni di Mark Wahlberg e Greg Kinnear, rispettivamente Papale e Vermeil.

Ne esce fuori un discreto film sportivo, che gioca quasi tutte le sue carte sul sempreverde fascino dell'american dream, si concede il lusso di qualche piccola divagazione nel sociale e, tutto sommato, si fa abbastanza perdonare gli eccessi di retorica. A patto di amare il football americano, certo. E un po' di simpatia per gli Eagles, pure, non guasta di sicuro.

4.2.07

The Guardian

The Guardian (USA, 2006)
di Andrew Davis
con Kevin Kostner, Ashton Kutcher, Sela Ward

I "rescue swimmer" sono degli eroici pazzi scriteriati che si gettano in mare durante le peggiori tempeste per salvare la gente in difficoltà. Ben Randall è praticamente il migliore di sempre ma, in seguito a un'operazione finita male - con lui unico sopravvissuto - viene spedito a fare l'istruttore in accademia. Qui si ritrova fra le mani la superstar Jake Fischer, campione di nuoto, smargiasso, talentuoso. Queste le non proprio originali premesse per un film che non ci prova nemmeno per sbaglio, ad essere originale.

Praticamente The Guardian è una versione "oceanica" di Ufficiale e gentiluomo, con Kevin Costner al posto di Lou Gosset Jr. e Ashton Kutcher al posto di Richard Gere. E tutto ciò che non arriva da lì, si è comunque visto da qualche altra parte. Un film talmente derivativo da fare quasi tenerezza e che, tutto sommato, proprio per questo arriva perfino a divertire. La moglie di Ben lo scarica perché lui è troppo fissato col lavoro, Ben vuole rifarsi una vita, Ben non riesce a scrollarsi di dosso i postumi dell'incidente, Jake è un teppistello ma è anche un bravo ragazzo, Jake ha un tremendo scheletro nell'armadio che lo rende molto vicino a Ben, Jake si tromba la figa di ghiaccio del quartiere, eccetera eccetera eccetera.

Insomma, una roba banale, superflua, inutile, ma decentemente confezionata, con un Ashton Kutcher meno irritante del solito e un Kevin Costner che ormai è più incartapecorito di Harrison Ford e Sean Connery messi assieme. Tutto sommato, per passare due ore senza cazzi per la testa mentre ero in aereo sopra alla Siberia, è andato più che bene. Certo, non credo valga la pena di andarselo a vedere al cinema. Magari su Sky, quando passerà, se proprio proprio non sarà rimasto nient'altro da guardare.

2.2.07

giopep in Japan - Bambole di Natale


DISCLAIMER: Ma facciamo anche senza.

Tokyo, 24 dicembre 2006.
La giornata si apre con un'abbondante colazione, fatta di caffé (o quasi: una specie di Nescafé giapponese), onigiri e succo di pompelmo. Dopo esserci riempiti a dovere, decidiamo di avviarci, diretti verso la zona di Harajuku. La domenica mattina non è proprio il momento più vitale della settimana anche in Giappone, ma piano piano la città si animerà. Zompiamo sulla Yamanote e scendiamo ad Harajuku, dove decidiamo di aprire le danze visitando lo Yoyogi Koen, il parco più grande di Tokyo. Mentre ci dirigiamo all'ingresso più vicino, notiamo sulla sinistra lo Yoyogi National Stadium, un palazzetto olimpico progettato da Kenzo Tange e costruito in occasione delle Olimpiadi del 1964. Il parco è letteralmente invaso dai corvi, che gracchiano ininterrottamente e contribuiscono a dare vita a un'atmosfera davvero particolare. Ce lo gironzoliamo placidamente, seguendo un po' a caso le indicazioni delle mappe sparse in giro e abbandonandoci alla piacevole giornata.

Dopo essere spuntati fuori dal lato occidentale, costeggiamo il parco verso nord, passando davanti all'Olympic Youth Center e raggiungendo l'ingresso settentrionale della zona di Meiji-Jingu, che racchiude un grosso tempio shintoista e un notevole parco. Subito prima di entrare, ci attardiamo a sbirciare dentro una piccola scuola di equitazione, dove una bimba sta imparando a cavalcare. Proprio qui acquisto per la prima volta una cioccolata calda da uno dei cento milioni di distributori automatici che popolano il Giappone. Mentre sorseggio la mia sorprendentemente gustosa bibita calda, attraversiamo l'ingresso e ci inoltriamo nella foresta, passando davanti a varie costruzioni e raggiungendo questo bello spazio aperto, dove mi svacco e mi metto a scattare foto inutili mentre Elena ne scatta a me. Si rimane un po' lì a rilassarci, osservando i palazzi in lontananza e sbirciando nel laghetto in basso. La giornata è complessa, perché sono tormentato da un piede e un ginocchio doloranti per le fatiche del giorno precedente, ma trovo la forza incosciente di proseguire.



La marcia riprende placida e, fra alberi e ponticelli, ci dirigiamo verso la costruzione principale. Qui gironzoliamo sbirciando in giro, fra gente in preghiera e negozietti di ammenicoli votivi, e scattando foto a cancelli, torri, decorazioni, monaci, porte e altre cosette sfiziose. Per esempio la sfilza di tavolette votive, 500 yen l'una, nientemeno, su cui bisogna scrivere i propri desideri. Poi ci pensano i monaci e le divinità. Già che ci sono, colgo l'occasione per eseguire, per la prima volta, la procedura di lavaggio "purificatorio" che fino a quel momento avevo trascurato (e che bisognerebbe eseguire sempre, prima di entrare in un tempio). Dopo una bella visita, decidiamo di allontanarci, non prima di aver fotografato furtivamente una ragazza in "uniforme" e un'altra costruzione a caso. Proseguiamo fino all'ingresso principale e decidiamo di trascurare il Jingu Naien, un giardino tradizionale (ovviamente a pagamento) che, probabilmente, in inverno non offre proprio il meglio di sé. E allora, dopo aver dato un'occhiata ai bariloni di sake, ci avviamo verso l'uscita del parco (non prima di aver fatto tappa al negozio di souvenir, dove tiriamo su qualche cagata).


Uscendo dal parco, passiamo sul ponte che collega l'area del santuario con la stazione, famoso per le ragazze che vi si ritrovano addobbate con costumi e vestiti a dir poco variopinti. Siamo ancora in tarda mattinata, quindi ce ne sono pochine, ma ci fermiamo comunque a sbirciare un po'. Dopodiché attraversiamo la strada e ci facciamo un giretto all'interno di Snoopy Town, un negozio interamente dedicato ai personaggi di Charles Schulz. Dopo aver eroicamente resistito alla tentazione di spendere lì dentro tutti i soldi rimasti, ci infiliamo in Takeshita Dori, la via che vedete in foto qua sopra. Takeshita Dori è, in sostanza, una via pedonale estremamente gggiovane, straripante di fast food e negozi di vestiti e altro (che so, moda per cani, giocattoli... Porta Portese...). Ce la giriamo con calma, arrivando fino all'incrocio con la più grande (e trafficata) Meiji Dori, che seguiamo verso nord per raggiungere l'area del santuario Togo Jinja.

Attraversato il solito tori d'accesso, gironzoliamo su questa specie di pontile, che offre una bella vista su un laghetto strapieno di carpe, ci arrampichiamo lungo una scala che fa molto Forbidden Siren e raggiungiamo il tempio vero e proprio (dedicato all'ammiraglio Togo Heihachiro, che guidò la flotta giapponese alla vittoria contro i russi nella guerra di inizio ventesimo secolo). Mentre esploriamo il posto, ci rendiamo conto di essere capitati nel bel mezzo di un matrimonio e ci ritroviamo ad osservare la cerimonia a bocca spalancata. Purtroppo la batteria della fotocamera ci abbandona (la stanchezza della sera prima mi ha fatto dimenticare di metterla in carica) e da qui in poi dovremo ripiegare su quella, pezzentissima, di riserva (con cui peraltro Elena gira al volo un filmatino della cerimonia. La qualità è quella che è, ma perlomeno si sente la musica).

Dopo esserci fatti una sana dose di cazzi altrui scendiamo un'altra scalinata e ci ritroviamo in un affascinante mercatino d'antiquariato, che - leggo sulla guida - si tiene ogni prima e quarta domenica del mese. Facciamo un veloce giro fra le bancarelle e Elena si diletta a fotografare un paio di bambole. Dopodiché, dato che il tempo inizia a farsi tiranno, decidiamo di allontanarci e fuggire verso il ristorante. Il luogo scelto è Maisen, uno fra i ristoranti di Tonkatsu più famosi e amati di Tokyo. L'avevo individuato giorni prima sulla guida e avevo subito deciso che, il giorno in cui saremmo passati da Harajuku, avremmo mangiato lì, nella zona di Aoyama, circa cinquecento metro a sudest del Togo Jinja. Lungo il cammino, ci soffermiamo a osservare un'area un po' più "residenziale" del quartiere, incappando anche, in un vicoletto, in un simpatico murales. Da notare che, ancora una volta, la mappetta della Rough Guide si rivela mostruosamente precisa: il ristorante è esattamente all'angolo di strada indicato.

Ci infiliamo nel posto e veniamo fatti accomodare sulle panche d'attesa. La maggior parte dei ristoranti giapponesi, infatti, è dotata di una lunga fila di panche dove la gente che deve attendere può accomodarsi. Ogni volta che qualcuno viene fatto accomodare al tavolo (e libera quindi dello spazio in testa alle panche), tutta la coda si alza e "trasla" con ordine. In genere, perlomeno nei posti in cui siamo stati, l'attesa non è molto lunga. I giapponesi, infatti, tendono a gestire il pasto abbastanza in fretta, senza soffermarsi più di tanto nella fase "relax" del dopo mangiato. Durante l'attesa sbirciamo il menu che ci viene consegnato e iniziamo a decidere cosa dovremo mangiare. Una volta fatti accomodare, optiamo per due menu diversi, ovviamente entrambi a base di tonkatsu. E già al primo assaggio ci rendiamo conto di essere capitati in una sorta di Eden. Avevo già delirato al riguardo qui, ma tocca ribadire: una cotoletta di maiale così buona non l'avevo davvero mai mangiata. Ma al di là dei paragoni, si parla di qualcosa di incredibile proprio di suo. Ogni morso è un'esplosione di gioia. Mentre mangiavo avevo letteralmente le lacrime agli occhi, per quanto mi stava piacendo.

Ah, il menu comprende, oltre alla cotoletta e all'inevitabile contorno di riso bianco, una serie di cazzetti e cazzettini da mangiare. Ovviamente i cazzetti e i cazzettini dipendono dal menu che si è scelto, ma la sostanza non cambia di molto. Sul tavolo c'è tutta una serie di barattolini da cui pescare le varie salse da spargere sopra alla cotoletta. Inoltre, con alcuni tipi di tonkatsu viene servita una salsa speciale apposita (è capitato ad Elena). Una volta finito di godere, ci alziamo e fuggiamo, ricevendo peraltro alla cassa un gentile omaggio natalizio fatto di panini contenenti, sigh, altro delizioso tonkatsu. Da notare che all'interno del risorante c'è proprio una specie di mini negozietto, in cui è possibile comprare questo genere di cose.



Una volta usciti, ci dirigiamo verso sud, scendendo dalla collina su cui si trova il quartierino del ristorante e dirigendoci verso Omotesando. Lungo il tragitto ci imbattiamo in una roba che non so cosa sia ma che Elena vuole fotografare. Spuntiamo in Omotesando e la percorriamo verso la stazione. Per la cronaca, trattasi di una via parecchio ampia, satura di macchine e persone, in cui si trovano uno sproposito di negozi (fra cui il Kiddyland visitato il giorno prima). Arrivati in fondo alla via ci ritroviamo nella zona della stazione, che nel frattempo si è decisamente popolata: sul ponte è ormai pieno di ragazzine vestite in modo allucinante e davanti alla stazione c'è un gruppo di tamarretti giapponesi che cantano una qualche canzone rockeggiante. Ma non c'è tempo, dobbiamo fuggire. Zompiamo sulla Yamanote e, dopo un paio di cambi, ci ritroviamo sul treno della metropolitana che ci deve portare a Odaiba.

Odaiba è il quartierino che si affaccia sulla baia, meta di coppiette amoreggianti e turisti curiosi. Ma ne parlerò più avanti, quando racconterò della sera in cui siamo andati a gironzolarvi senza particolare meta. In quest'occasione, infatti, la meta è ben precisa: una fiera di bambole quasi interamente dedicata alle Super Dollfie che si tiene a Tokyo quattro volte l'anno. Il tutto si svolge all'interno del Tokyo Big Sight (sito ufficiale), un complesso fieristico enorme e, ovviamente, modernissimo. Arrivati alla stazione di Kokusai Tenjijo, scendiamo dal treno e ci dirigiamo verso il luogo del delitto. Mano a mano che ci si avvicina al posto, cominciamo a incrociare persone cariche di sacchetti e sacchettoni, presumibilmente gravidi di bambole. Elena prevede di fare spese e andiamo quindi alla ricerca di uno sportello ATM per prelevare. Infilandoci in un supermercatino abbiamo la conferma definitiva del fatto che gli ATM che si trovano al loro interno non supportano le carte internazionali. Ma d'altra parte ci troviamo in un importante complesso fieristico e, come è solo logico che sia, al suo interno troviamo uno sportello internazionale da cui ci approvvigioniamo.

La fiera, dimensioni spropositate a parte, non è particolarmente diversa dalla classica fiera specializzata italiana, con una lunga serie di tavoli e tavolini addobbati dai vari espositori e un paio di sezioni "big" gestite in prima persona dalla Volks (fra cui un'esposizione dedicata alle fiabe). Si gironzola, si osserva, si basisce e si compra, in un vero tripudio di bambole. Elena, ovviamente, scatta una marea di fotografie, delle quali infilo qui qualche esempio.



Elena investe un po' di soldi in vestiti e controvestitini, fra cui un kimono comprato a questo banchetto, gestito da una signora molto simpatica e che si rivelerà poi essere una specie di star dell'ambiente, rispettata e riverita dalle appassionate (ma che Elena sul momento non aveva riconosciuto). Una volta concluso l'epico tour, usciamo, ci rilassiamo un'attimo sulle panche e ci avviamo verso l'uscita, pronti a inforcare la monorotaia Yurikamome, che praticamente collega per direttissima Shimbashi e Odaiba. Nel giro di mezzoretta siamo in albergo, dove ci fermiamo un po' a rilassarci. Dopodiché si esce di nuovo, diretti verso Roppongi Hills, dove si arriva abbastanza comodamente con la metropolitana.

Roppongi Hills (
qui il sito ufficiale) è una roba impressionante: praticamente un centro commerciale grosso come un piccolo quartiere. Ci sono due enormi palazzi, il più grosso dei quali, oltre a negozi e ristoranti, contiene anche svariati uffici (la foto purtroppo è venuta mossa). Oltre a questi, ci sono altre costruzioni, un cinema e svariate aree all'aperto. Una cosa incredibile, abnorme, in cui è davvero impossibile orientarsi senza fare casino e andare anche un po' a caso. Fra mappe, volantini e indicazioni strane, vaghiamo alla disperata, visitiamo il posto e raggiungiamo anche un ristorante di sushi, ma il posto straborda di gente (la vigilia di Natale, a quanto pare, è una sera in cui tutte le coppiette se ne vanno a cena fuori) e allora decidiamo di gironzolare ancora un po' e andarcene poi a mangiare in albergo, all'insegna del relax. Ci strafoghiamo con l'Akebono Crab di Kazuhisa, dei Ritz comprati per l'occasione e i panini del Maisen e, dopo un po' di relax, sveniamo alla disperata.

Altre cose
Tonkatsu
Molto semplicemente, cotoletta di maiale. La panatura è abbastanza simile a quella italiana, anche se, a quanto ho capito, si utilizza una mollica di pane tipicamente giapponese. La consistenza e il sapore, quando è di qualità, hanno del paradisiaco. Si mangia "impreziosita" da una salsa apposita.
Scheda su wikipedia.

Distributori automatici
Il Giappone è pieno di distributori automatici di bibite, calde e fredde. Se ne trovano veramente ad ogni angolo di strada e sono comodi non solo per recuperare da bere, ma anche perché sono quasi sempre accompagnati da un cestino della spazzatura (oggetto invero abbastanza raro, nella terra del Sol Levante). I distributori accettano monete e banconote, danno il resto e sono tenuti in perfetto stato. Insomma, niente a che vedere con i distributori di malattie infettive che si trovano nella metropolitana milanese. Nella stragrande maggioranza di questi distributori si trovano solo acqua, bibite gasate e bevande calde (caffé, the, cioccolata), mentre gli alcolici sono stati più o meno banditi. Di scenette alla Maison Ikkoku con Godai e amici che si sbronzano al distributore, insomma, è difficile vederne.

 
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